Non sono solo leggi ingiuste a ostacolare la vita degli immigrati. Il lavoro quotidiano delle burocrazie - questure, prefetture, ministeri - è forse il più potente fattore di discriminazione ed esclusione. Alcuni esempi di quotidiane vessazioni.
Prima la Turco-Napolitano, poi la Bossi-Fini, infine il Pacchetto Sicurezza: nella narrazione di attivisti e studiosi, la storia delle politiche migratorie è scandita dalle grandi leggi approvate dal Parlamento. Per i migranti che ogni giorno affollano gli uffici delle questure, la stessa storia procede a tappe un po' differenti. Davanti a loro non c'è la "legge": ci sono funzionari di polizia in carne ed ossa. Persone che, a loro volta, devono fare i conti con i loro superiori, con gli uffici centrali del ministero dell'Interno, e con la complicatissima rete di "circolari interpretative" che vengono da Roma.
A volte, basta una di queste circolari per cambiare la vita di migliaia di migranti: molto più di quanto non faccia una norma approvata dal Parlamento. E non sempre gli "ordini" del ministero sono in armonia con la legge?
Cambiare le carte in tavola: i ricongiungimenti famigliari. Prendiamo l'esempio del "ricongiungimento familiare", cioè della procedura che consente a un immigrato regolare di chiamare in Italia i propri congiunti (coniuge, figli minorenni o genitori). La legge prevede che il richiedente dimostri di avere un alloggio "idoneo", nonché un reddito sufficiente a mantenere i congiunti quando saranno in Italia.
Nel 2008, con un "decreto interministeriale" - un atto che dovrebbe limitarsi a interpretare la legge, fornendo indicazioni sulle procedure - l'istituto del ricongiungimento è stato per molti aspetti stravolto. Vediamo perché.
Secondo le nuove regole, l'immigrato che chieda l'ingresso dei famigliari deve presentare alla prefettura il modulo "S2". Si tratta di un documento firmato dal datore di lavoro, in cui si dichiara che lo straniero - quello che chiede il ricongiungimento - è ancora assunto, e continua a svolgere regolare attività lavorativa.
In teoria, non ci sarebbe alcun bisogno di questo modulo: le aziende sono infatti tenute per legge a comunicare al Centro per l'Impiego ogni variazione del rapporto di lavoro, ivi incluse sospensioni, licenziamenti, modifiche di orario ecc. La prefettura vuol sapere se il rapporto di lavoro è ancora in corso? Basta una telefonata al Centro per l'Impiego, un rapido controllo sui terminali, e il gioco è fatto?
Perché allora il modulo S2? A pensar male si fa peccato, diceva un politico della Prima Repubblica, ma in genere si coglie nel segno: con le nuove regole lo straniero si vede costretto a comunicare al datore di lavoro la sua volontà di chiamare in Italia i parenti. E siccome non è scritto da nessuna parte che il datore sia obbligato a firmare il modulo, di fatto lo straniero chiede al datore di lavoro il permesso di effettuare il ricongiungimento.
L'Italia, si sa, è il paese dove una donna può essere licenziata se aspetta un bambino. Dove - secondo una recente indagine Istat - circa 800 mila madri, nel corso della loro vita, sono state licenziate o si sono dovute dimettere a seguito di una gravidanza. Cosa può accadere se una donna straniera comunica al datore di lavoro la volontà di ricongiungersi col marito?
Poi ci sono le iniziative autonome delle singole prefetture. Come quella di Pistoia, che in caso di ricongiungimento con il genitore chiede a quest'ultimo una "autocertificazione di monogamia". Difficile fare commenti: basti sapere che nessuna legge prevede una cosa del genere (ci mancherebbe altro?).
Coppie miste discriminate? Un capitolo a parte riguarda l'applicazione delle norme sui "famigliari di cittadini Ue": cioè di coloro che, pur essendo "extracomunitari", hanno un coniuge o un parente italiano, o comunque cittadino dell'Unione Europea. In un paese sempre più meticcio, il fenomeno riguarda centinaia di migliaia di persone: secondo i dati del Dossier Caritas, ad esempio, sono ben 230.000 i matrimoni misti celebrati negli ultimi dieci anni.
In teoria, i famigliari di cittadini comunitari avrebbero diritto ad una "carta di soggiorno", valida per cinque anni e rinnovata poi a tempo indeterminato. Nella pratica le cose sono più difficili. Per varie ragioni.
Anzitutto, c'è quello che si potrebbe chiamare il "pasticcio dei nomi doppi". Sì, perché carta di soggiorno era anche il nome che la legge Turco-Napolitano aveva dato al documento dei "lungo-soggiornanti": cioè di coloro che dopo 5 anni di presenza regolare dimostrassero buoni requisiti di integrazione (reddito alto, alloggio confortevole, fedina penale pulita), e ai quali veniva concesso un documento a tempo indeterminato.
Poi, per evitare confusioni, la legge ha introdotto nomi diversi: per i familiari di cittadini Ue è rimasta la dizione "carta di soggiorno", mentre agli stranieri integrati da più di cinque anni si rilascia oggi un "permesso per soggiornanti di lungo periodo".
Il guaio è che, nella pratica quotidiana, si è continuato a usare il termine "carta di soggiorno" per designare entrambi i documenti. E così gli uffici delle questure fanno confusione. «Vuoi la carta di soggiorno? Allora devi portarmi il reddito, la certificazione dell'alloggio, il casellario giudiziario, i carichi pendenti?».
Ma, anche al di là della faccenda dei nomi doppi, la normativa sui famigliari dei cittadini comunitari è largamente disattesa. Molte questure continuano a chiedere il reddito (quella di Treviso lo scrive candidamente anche sul proprio sito internet), impedendo così la regolarizzazione di persone disoccupate, che pure ne avrebbero diritto. Altre chiedono il visto di ingresso, mentre le regole europee prevedono il rilascio della carta anche a chi sia entrato clandestinamente. L'elenco potrebbe continuare?
Se la burocrazia fa la legge. Ricongiungimenti famigliari e carte di soggiorno sono solo due esempi, tra i tanti possibili, del comportamento delle burocrazie nostrane. In questi casi, come in molti altri, gli uffici immigrazione delle questure e gli sportelli unici delle prefetture non si limitano ad applicare le leggi: ne costruiscono di nuove, mai discusse da nessuno, mai votate dal Parlamento, mai sottoposte al vaglio del legislatore?
Di queste leggi invisibili poco si parla. Eppure, si tratta di vere e proprie norme vigenti, quotidianamente applicate. Più forti della Bossi-Fini, più severe e arbitrarie del Pacchetto Sicurezza. E più difficili da contrastare, perché non scritte in alcuna Gazzetta Ufficiale.
Per gli immigrati che le subiscono, l'unica strada per opporvisi è quella di adire le vie legali, e avviare il fatidico ricorso al Tar. Ma quello costa, ed è riservato ai ricchi?
Sergio Bontempelli