Governo, l'allarme.

Il premier: "Servono nuovi modelli di finanziamento integrativo".

Francesco Grignetti

Ha toccato un tabù, Mario Monti. E s'è capito dal diluvio di reazioni alle sue parole, che lo stesso premier ha sentito il bisogno di correggere a metà pomeriggio. In estrema sintesi, il presidente del Consiglio ha detto che il sistema sanitario, così come quello pensionistico prima della riforma Fornero, rischia il default. L'ha detto da fine economista, ma la sostanza è quella. Si veda la precisazione: «Le garanzie di sostenibilità del servizio sanitario nazionale non vengono meno.

Per il futuro è però necessario individuare e rendere operativi modelli innovativi di finanziamento e organizzazione dei servizi e delle prestazioni sanitarie». E riferendosi alla sostenibilità dei conti, Monti si interroga «sull'opportunità di affiancare al finanziamento a carico della fiscalità generale forme di finanziamento integrativo».  

Un tabù infranto, comunque. «Nessuno pensa alla privatizzazione del servizio sanitario nazionale», ribadisce intanto il ministro della Salute, Balduzzi. «E Monti ha parlato di nuove forme di finanziamento, non di forme diverse». Che il sistema sanitario sia a rischio, però, non è poi così difficile capirlo. «Le proiezioni di crescita economica e quelle di invecchiamento della popolazione - aveva esordito Monti - mostrano che la sostenibilità dei sistemi sanitari, incluso il nostro di cui andiamo fieri, potrebbe non essere garantita se non ci saranno nuove modalità di finanziamento e di organizzazione dei servizi e delle prestazioni».  

La sua risposta è che occorre una «riorganizzazione» della sanità e insieme la ricerca di «modelli innovativi di finanziamento». Questo significa forse che a una sanità integrativa sulla falsariga delle pensioni integrative? Subito s'è aperto un dibattito furioso. Sono intervenuti pressoché tutti i Governatori, preoccupati che le parole di Monti siano un preludio a nuovi tagli. Il Pd è apparso sconcertato da un nuovo fronte che si apre. Pier Luigi Bersani mette le mani avanti: «Penso di essere un po' più ottimista di Monti. Il sistema sanitario bisogna garantirlo. Nei prossimi anni le difficoltà saranno grandi, anche per le misure prese. È un problema sul quale mettere occhio perché se ci sono due sanità, dei poveri e dei ricchi, siamo al disastro sociale e economico». Ma anche l'Udc, attraverso il segretario Lorenzo Cesa, dà un altolà: «Il nostro servizio sanitario nazionale rappresenta un modello nel mondo. Per fare in modo che resti tale, bisogna continuare nel percorso di razionalizzazione delle risorse ed eliminazione degli sprechi, senza fare passi indietro sul diritto alla salute e sull'universalità del sistema».  

I sindacati, intanto, ci hanno visto il «de profundis» della sanità pubblica. Inferociti più di tutti i rappresentanti della Cgil: «Se il governo ha intenzione di privatizzare, come denunciamo da mesi, lo dica. Noi lo combatteremo. Ma non può affamare la bestia per poi svenderla». Oppure Costantino Troise, segretario dell'Anaao-Assomed: «In sostanza dice che i soldi sono finiti e che la sanità se la devono pagare i cittadini, come già ora avviene con la non autosufficienza. Niente di nuovo sotto il sole».

Merita attenzione il commento di un chirurgo prestato alla politica come Ignazio Marino: «Il presidente del Consiglio - dice - è stato sincero, poiché la sostenibilità del servizio sanitario nazionale è davvero a rischio».  

E dunque, ecco un primo elenco degli sprechi a cura del senatore Marino, che ad avere coraggio potrebbero generare immensi risparmi: dirigenti sanitari - dice - hanno operato male, sperperando i soldi pubblici e accettando di pagare una protesi per l'anca anche 2.800 euro anziché 250 euro; ricoveri inappropriati per interventi chirurgici programmati, con cui si buttano dalla finestra 1000 euro al giorno per ciascun paziente; Regioni come il Lazio ricoverano quasi 3 giorni prima dell'intervento e in alcune aree del Mezzogiorno si arriva addirittura a 5 o 6 giorni. «Mi aspetto poi l'accorpamento dei cinque centri di trapianto di fegato di Roma dato che nessuno è riuscito a raggiungere il numero minimo per mantenere aperto il servizio, mentre a Torino ce n'è soltanto uno ad eseguire quasi il doppio di trapianti».

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