Prima consulenza in Italia per investimenti nel sociale.

Maurizio Carrara, presidente di Unicredit Foundation, lo confidava come un sogno nel cassetto ancora un anno fa. Adesso, evidentemente, è il tempo di farlo uscire (dal cassetto, ma non solo). Il gruppo bancario di Piazza Cordusio ha creato un servizio di consulenza per la gestione del patrimonio destinato a fini filantropici. Nella sostanza, ha avvicinato due anime della banca: quella del private banking e quella della Foundation. Ovvero, una divisione fisiologicamente all-profit con una realtà non-profit. Semanticamente, il risultato dell'incrocio sembra porta a un concetto interessante: servizi per il "non-necessariamente-profit".

La strategia avviata dal gruppo di Piazza Cordusio, ed enunciata in un articolo apparso su Capital la scorsa settimana, non ha precedenti in Italia. La motivazione l'ha enunciata Dario Prunotto, responsabile del private banking di Unicredit: «Sempre più spesso i nostri clienti chiedono come potere diventare filantropi. Sono preoccupati soprattutto d'investire nel modo giusto».

Insomma, torna a rivelarsi un gap già denunciato da ETicaNews, tra l'elevato potenziale di investimento sociale "esistente" e le opportunità di impiego nel sociale "non-esistenti" sul territorio. O meglio, non raggiungibili e non conosciute: chi ha disponibilità economiche pronte per essere destinate a investimenti diversi, non ha strumenti o strade percorribili. Da qui, la necessità di un advisor che faccia da guida.

La strategia adottata da Unicredit, quindi, rappresenta un passo cruciale per l'Italia. Soprattutto se, come ci si augura, dimostrerà, oltre alle opportunità filantropiche, anche le grandi opportunità economiche che tuttora si nascondono in questo segmento. I presupposti ci sono.

Si considerino i dati di Eurosif diffusi la prima settimana di novembre: in Europa ci sono 1.150 miliardi di euro investiti in asset sostenibili da parte di individui con ampia disponibilità finanziaria (i cosiddetti high net worth individual, paperoni con oltre un milione di ricchezza personale). Dentro questo tesoro ci stanno quote azionarie in attività delle energie rinnovabili o in società specializzata nel trattamento delle acque o rifiuti (scarica il report) così come quote di fondi Sri (Socially responsible investing). Ma è oltremodo significativo che uno su due di questi super ricchi abbia dichiarato di aver destinato risorse all'impact investing, ossia ad attività scelte per una forma di ritorno sociale accanto a quello finanziario. Attività, dunque, che possono (e non: devono) garantire un rendimento, magari anche inferiore rispetto ad asset tradizionali, ma che per contro garantiscono creazione di valore aggiunto per un ventaglio ampio di soggetti sociali.

L'obiezione, a questo punto è: d'accordo, c'è una fortuna destinata a investimenti sostenibili e d'impatto. Ma quanto questo genere di asset collimano con la filantropia?

Questo è il punto. È evidente che scelte come quella di Unicredit potranno funzionare a pieno regime qualora si allarghi il significato attuale di scelta filantropica. Nella cultura italiana, per evidenti connessioni con la religione cattolica, essa ha fino a oggi coinciso con il concetto di donazione. Viceversa, in altre culture ha prevalso, o si sta affermando, una visione più improntata su canoni di efficienza e di efficacia sociale. Per esempio, secondo una ricerca presentata a Londra a metà ottobre, circa la metà dei cittadini inglesi (il 46%) è pronto ad allocare una parte di patrimonio o della pensione in impact investment.

È un'impostazione in cui l'attitudine alla cessione di parte delle proprie fortune diventa allocazione delle risorse in un'attività economica, nel senso di attività capace di generare a sua volta risorse. Ovviamente, un'attività economica che non sarebbe stata scelta in base a una semplice analisi dei rendimenti attesi. Ma che diventa appetibile se, accanto ai rendimenti finanziari, si affiancano i rendimenti sociali (dunque, social business). L'equilibrio tra i due rendimenti varia a seconda dello spirito filantropico. Ma, in generale, si traduce in meno riconoscimenti morali al singolo lassù nel regno dei cieli, più risultati quaggiù nella competitiva società del mercato.

Unicredit, dunque, ha lanciato una sfida. Potrà offrire consulenza a chi cerca un destinatario cui "regalare" risorse. Ma, soprattutto, dovrà essere in grado di convogliare la vis donandi dei propri clienti verso quel business sociale che potrebbe davvero rappresentare un motore nuovo per l'Italia.

PS Due giorni fa, in una storia raccontata sul Corriere dal suo vicedirettore Giangiacomo Schiavi, è riapparso quello che il giornalista chiama "l'Angelo di Milano", ossia un soggetto dalle grandi disponibilità economiche, che interviene nelle situazioni critiche a risollevare chi non ha ormai speranze. È una storia come ne capitano poche, sui giornali, descritta con partecipazione e commozione.

Ebbene, anche questo Angelo della donazione ha fatto un passo oltre. Per dare un modello di funzionamento alla propria generosità, ha creato una Fondazione (Fondazione Condividere). E questa, a sua volta, oltre agli interventi elargitori, prevede interventi per l'autonomia economica dei soggetti coinvolti. All'orizzonte, dunque, compare il concetto del social business. Forse serviranno molti altri passi, ma anche gli Angeli si sono messi in cammino.

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