L'accordo tra le parti sociali evita di affrontare i reali punti critici.
Luca Aterini
Dopo una lunga gestazione, ieri le parti sociali hanno sottoscritto l'accordo sulla produttività. Tutte - Abi, Ania, Confindustria, Lega cooperative, Rete imprese Italia, Cisl, Uil e Ugl - tranne la Cgil. Il segretario del sindacato, Susanna Camusso, ha motivato il suo no affermando che è un accordo che «riduce i salari reali». «L'intesa - ha sottolineato - è coerente con la politica del Governo che scarica sui lavoratori i costi e le scelte per uscire dalla crisi. Si è persa un'occasione». Soprattutto, rammarica che ancora una volta si sia sprecato tempo ed energie preziose lottando attorno ad un tavolo che poco o nulla incide circa le opportunità dell'economia italiana di rialzare la testa.
Qualcosa di buono, leggendo il testo integrale dell'accordo, in queste dichiarazioni d'intenti ci sarebbe. Ma rimane troppo vago, e soprattutto di interesse marginale all'interno dell'intera partita. Le parti sociali, ad esempio, si muovono bene sottolineando l'importanza di «un sistema scolastico e formativo» adeguato alle necessità di un'economia ad alto tasso di conoscenza, manuale quanto teorica.
Si muovono ancora meglio chiedendo al governo «una riforma strutturale del sistema fiscale che lo renda più equo e, quindi, in grado di ridurre la quota del prelievo che oggi grava sul lavoro e sulle imprese in maniera del tutto sproporzionata e tale da disincentivare investimenti e occupazione». Non c'è però traccia di proposte incisive: aumentare il prelievo sui patrimoni? Ridurre la pressione fiscale con strumenti (quali?) di lotta all'evasione fiscale? Spostare il carico fiscale dal lavoro ai consumi di energia e di materia, favorendo non investimenti ed assunzioni quali che siano, ma indirizzati ad una precisa idea di rilancio sostenibile? Purtroppo, il documento non ci illumina in tal senso.
Il cuore dell'intero dibattito è però concentrato attorno all'ultimo punto del documento, quello della Contrattazione collettiva per la produttività. L'Istat ci ricorda che, in Italia, la produttività è praticamente ferma da vent'anni. Un problema serio. Ma non per colpa del lavoro. Nel periodo 1992-2011, la produttività totale dei fattori è aumentata ad un tasso annuo dello 0,5%, derivante da una crescita media dello 0,9% della produttività del lavoro e da una flessione dello 0,7% di quella del capitale.
In due decenni (vedi grafico in alto, fonte Istat), la produttività del lavoro ha dato un contributo sensibilmente più importante sul totale rispetto a quella del capitale. Il risultato è che ci troviamo adesso a dibattere di maggiore flessibilità, o di videosorvegliare i lavoratori durante lo svolgimento delle loro mansioni: un atteggiamento inutile al Paese quanto ideologico. Si parte dal presupposto che i lavoratori non abbiano voglia di lavorare, ma i dati dimostrano che non è così.
In Italia, la produttività è bassa perché non è efficiente l'impiego di capitale: finanziario, fisico e umano. Si investe prevalentemente in produzioni a basso valore aggiunto. Mettendo in piedi processi produttivi altamente dissipanti di energia e materie prime, quando - parole di Confindustria - le loro quotazioni sono ormai «diventate fattore di grande e crescente incertezza nella formazione dei bilanci, nelle politiche dei prezzi e nella formulazione delle strategie per le imprese manifatturiere». Il tutto condito da una disponibilità di capitale umano di bassa qualità, suo malgrado, a causa di investimenti in istruzione e ricerca abbondantemente al di sotto della media europea.
Intervenire su questi punti vorrebbe dire mettere in campo una seria politica di rilancio della produttività italiana, e al contempo avanzare verso una riconversione ecologica e sostenibile della nostra economia. Un obiettivo dall'importanza vitale, che continua purtroppo ad essere sovrastato dall'inutile (quando non interessata) sponsorizzazione della flessibilità del lavoro.