Nella Striscia fra la gente che sfugge ai raid israeliani: "E' peggio che nel 2008".
Francesca Paci, inviata a Gaza
Al-Katiba, nel cuore di Gaza City, è deserta. La voce dei giovani attivisti che qui, il 15 marzo 2011, chiedevano a gran voce la fine dell'occupazione ma anche la riconciliazione nazionale osteggiata dalle leadership di Hamas e Fatah è stata sostituita dal ronzio sinistro dei droni e dai taxi che grattano le marce sfrecciando per non essere colpiti. «Sembra un paradosso, eppure la primavera palestinese soffocata sul nascere dalla polizia di Hamas sta fiorendo ora grazie ai raid israeliani» osserva lo studente ventiduenne Mohammed, seduto in uno dei rari caffè aperti.
Un anno e mezzo fa pagò la voglia di Tahrir con diversi giorni di carcere, oggi, dice, ha perdonato i suoi nemici: «Per mesi, dopo quella manifestazione, bastava radunarsi in quattro o cinque in un caffè per insospettire la sicurezza, sono stato trattenuto oltre otto ore per aver protestato a favore della Freedom Flottilla, la nave dei pacifisti internazionali. Ma gli ultimi cinque giorni hanno messo una pietra sul passato, di fronte al nemico comune siamo tutti palestinesi».
Gli orologi di Gaza sono fermi a mercoledì scorso: da allora la popolazione aspetta il momento dello scontro con l'esercito israeliano. «A differenza di quattro anni fa l'umore è buono, questa operazione sarà più violenta di Piombo Fuso perché la resistenza palestinese si è rafforzata e Israele non può mollare senza perdere punti, ma siamo pronti, li stiamo aspettando» giura Khaled, commesso in un negozio di telefonia a pochi isolati dall'appartamento del premier Haniyeh. Teoricamente non avrebbe molto di cui rallegrarsi, nelle ultime ore l'aviazione israeliana ha bombardato numerosi edifici governativi e la famiglia al Dalu è rimasta sotto le macerie per un vicino di casa molto meno illustre del suo. Lui inoltre, ammette abbassando la voce, non è neppure particolarmente simpatizzante di Hamas. Poi però, all'improvviso, un'esplosione scuote l'aria, uno degli 80 raid del mattino colpisce per il secondo giorno consecutivo il media center al Shuruk uccidendo il leader delle Brigate al Quds Ramez Harb e ferendo diverse persone. E tra quelli che corrono sul posto dribblando i somarelli in mezzo alla strada torna il ragionamento di Khaled: «È peggio del 2008, le bombe sono più imprevedibili dei tank, colpiscono i civili per fare pressione su Hamas ma ottengono il risultato opposto».
Per trovare qualcuno che in queste ore a Gaza discuta sia pur blandamente la tattica dei razzi lanciati verso Israele, bisogna salire all'undicesimo piano senza ascensore di un palazzo alle spalle dello stadio semidistrutto. E anche qui la cinquantaduenne Etaf Abdel-Rahman sembra un'analista assai diversa dalla consulente politica del presidente Abu Mazen silurata dopo la guerra civile del 2007 tra Hamas e Fatah, quando la sua famiglia veniva con spregio chiamata «Dayton» (dal nome del generale americano incaricato di addestrare le forze dell'Autorità palestinese per combattere i gruppi terroristi). «Il 2007 è il punto più basso della storia palestinese, Hamas ha sbagliato ma si sta riscattando» afferma servendo caffè nel salotto viola. Continua a ricevere lo stipendio da Ramallah pur essendo disoccupata da cinque anni, ma non ha voglia di rivendicare: «Sono favorevole alla decisione del presidente Abu Mazen di chiedere all'Onu il riconoscimento della Palestina, la via diplomatica è la migliore. I negoziati però non ci hanno portato a nulla e ora dobbiamo investire nell'escalation per ricompattarci: è la nostra grande chance e confido che l'Egitto ci aiuti».
L'Egitto c'è, ci prova. Ieri il presidente Morsi ha spedito qui una delegazione della Fratellanza Musulmana giocando d'anticipo di un giorno sul ministro degli esteri turco atteso per oggi. «La tregua è ancora in discussione, Israele deve accettare le richieste della resistenza a partire dalla fine degli omicidi mirati» sentenzia il portavoce di Hamas Ghazi Ahmad all'ingresso dell'ospedale Shifa. Tra i giornalisti, gli uomini della sicurezza, i curiosi che stazionano davanti al pronto soccorso, ci sono anche alcuni giovani egiziani, ragazzi di Tahrir venuti a Gaza attraverso il valico di Rafah per far sentire ai coetanei palestinesi che l'Egitto stavolta c'è. E pazienza se quelli li prendono bonariamente in giro per la loro paura delle bombe: nonostante la barzelletta diffusa su Facebook secondo cui gli egiziani non sentivano più il rumore di un missile dal 1973, la bandiera di Tahrir oggi si allunga stiracchiata fin qui.
«Adesso tocca a noi, non ci speravo più e invece la nostra primavera inizia ora» afferma Asma Aghoul, la blogger nota per le feroci critiche alla dirigenza di Hamas. Anche per lei l'anno e mezzo trascorso tra il manifesto «Fuck you all» e i raid di queste ore pesa come un secolo: «Sappiamo quando dissociarci dal nostro governo e quando sostenerlo. Durante l'operazione Piombo Fuso avevo paura, adesso no, sono gasata, tremo per i miei due figli ma sento che è il momento giusto, di fronte a questa aggressione israeliana ho imparato a rispettare perfino chi mi ha messo in prigione». Non tutti la pensano come lei, ovviamente. Alcuni dei protagonisti del movimento 15 marzo 2011 se ne sono andati. Abu Yazan vive in Germania con la fidanzata e viene solo clandestinamente a Gaza dove sente di essere «wanted». Asad al Saftawi è in Egitto. L'informatico Nader studia in Gran Bretagna. Abu Ghazzen non risponde più al telefono. Per coloro che sono rimasti però, Hamas non sembra più essere quel Moloch da sfidare nel nome del vento generazionale anti-regime.
«Sento che uomini della Jihad islamica lanciano razzi contro Israele da dietro casa mia, c'è un cortile abbastanza grande e sparano da lì, non mi piace e preferisco dormire qui in negozio» confida il cameriere di uno Shawarma restaurant che insieme ad altri tre passa la notte tra i tavolini del locale e non solo per paura dei raid israeliani. Però. Però quando il proprietario Mahmoud Gonheim mostra la lamiera che gli è piovuta in testa due giorni fa dopo il bombardamento del ministero dell'interno, a pochi isolati da qui, si allinea docile: «Ci terrorizzano, ho ricevuto messaggi audio che dicevano di stare lontani da Hamas e di andarcene da Mursi, ci avvertono che colpiranno un certo edificio e poi non colpiscono per farci diventare pazzi. Dobbiamo difenderci».