Manlio Lilli

Nel 2030 il 60% della popolazione mondiale sarà urbanizzata. Per evitare scenari alla Blade Runner, l'Organizzazione mondiale della sanità ha lanciato il programma "Healthy Cities", un network di 73 città in cui la pianificazione urbana sarà uno strumento per garantire la salute degli abitanti. Ed evitare disastri.

Consumo della pianificazione progressivamente sempre più limitato. Città, anzi, metropoli, nelle quali i grattacieli, gli edifici, siano ecosistemi autosufficienti, con serre, giardini e termovalizzazione dei rifiuti. Gli sforzi di tanti urbanisti e pianificatori sono concentrati sulla risoluzione di problemi ormai improcrastinabili. Nell'intento di attenuare i disastri degli ultimi decenni. E anche in questo il contributo della politica non è marginale.

Perché la buona politica si fa anche costruendo buone città. Adottando strumenti urbanistici che permettano il riequilibrio dei disservizi. Misure che abbiano come finalità prioritaria il rispetto degli standard di vivibilità. Fuori dalle logiche di corto respiro dei PRG "pilotati" o, seppure corretti nella loro impostazione, stravolti nella loro attuazione da varianti e compensazioni, in realtà escamotage per disegnare in maniera particolaristica spazi con altre destinazioni. Ma, considerando che nella quasi totalità dei casi i centri urbani non vanno impiantati ex novo, ma ripianificati, riletti nelle loro trasformazioni, le difficoltà aumentano.

Il coefficiente di difficoltà di questo ripensamento si accresce per un sovvrapporsi di motivi, uguali e diversi, spostandosi di città in città, addirittura da un quadrante all'altro di una di esse. Tuttavia é più che evidente che, al di sopra dei tanti, tantissimi particolarismi, caratteri in negativo che consentono di connotare un disegno urbano rispetto ad un altro, vi sia un'inarrestabile tendenza all'aggregazioine, un'attrazione crescente costituita dai centri urbani. Ovunque o quasi nel mondo. Perfino nella Cina nella quale le città sono state a lungo il feticcio ideologico, strategico e militare di Mao. Anche lì, per la prima volta nella sua storia, gli abitanti dei centri urbani hanno superato il numero di quelli nelle campagne.

Le previsioni dell'Organizzazione mondiale della sanità, indicano un popolamento sempre più grande delle città. Per il 2030 il 60% della popolazione mondiale sarà urbanizzata, nel 2050 si ipotizza raggiunga addirittura il 70 per senato. Previsioni, certo. Ma comunque il trend non appare in discussione. Come conferma anche l'analisi della situazione italiana. Al momento dell'Unità d'Italia, nel 1861, gli abitanti delle 13 città più importanti non superavano i 2 milioni, pari al 7% di tutta la popolazione. All'inizio del Novecento la percentuale aveva già raggiunto il 10% e Milano, Roma e Napoli contavano più di 500mila persone. Cifra che, subito dopo la seconda guerra mondiale, aveva raggiunto e superato il milione.

È tra gli anni Cinquanta e Sessanta che si registra il cambio di passo. Come documentano numeri e racconti. Quello di Guido Piovene, ad esempio, che tra il 1953 e il 1956 attraversa il Paese (Viaggio in Italia, 1957) per conto della Rai, raccogliendo testimonianze, descrivendo la grande trasformazione. In tumultuosa realizzazione, se nel 1971 gli abitanti di centri con meno di 20 mila abitanti erano scesi sotto al al 50% del totale, mentre gli italiani residenti in Comuni oltre i 150 mila abitanti erano più del 20 per cento. Al momento le città italiane con più di 100 mila abitanti sono una cinquantina, una decina quelle che superano i 300 mila.

In complesso oltre 40 milioni di persone vivono in città. Persone che raggiungeranno, presumibilmente, gli oltre 46 milioni nel 2050. Persone che con la loro fisicità rischiano di "intasare" i centri urbani. Di riempirne gli spazi, peraltro generalmente già esigui. Città che in un futuro prossimo i più pessimisti immaginano come La Los Angeles del 2019, nella quale Ridley Scott ambientava il suo celebre fim del 1982, Blade Runner. Proprio per evitare questa catastrofe l'Oms ha promosso il programma internazionale Healthy Cities, un network di città "virtuose" che fanno della progettazione sana un pilastro dell'amministrazione pubblica.

Tra le 73 città italiane, sulle 1.300 europee, figurano grandi metropoli come Milano, ma anche centri di poche decine di migliaia di abitanti. Il focus è sulla pianificazione urbana come strumento per garantire la salute degli abitanti. Secondo un indirizzo che trova sempre più spazio. Come dimostra anche una recente mostra, "Imperfect Health", organizzata dal Canadian Centre of Architecture di Montreal. È necessario progettare il benessere. Città verdi, materiali salubri e scale al posto di ascensori per combattere l'obesità accanto a tute speciali per capire i bisogni degli anziani. Ma rifuggendo dalle risposte univoche. Proprio per questo le diverse esperienze debbono essere messe in rete e quindi "condivise". Per favorire un processo di sana contaminazione. Perché le soluzioni per città migliori esistono, ma sono sparse qua e là, in Italia e all'estero.

Se Friburgo, in Germania, è la capitale della sostenibilità urbana grazie a case passive, impianti fotovoltaici e verde urbano, Lisbona ha puntato sul tram. Così se a Ferrara si è potenziato l'uso della bicicletta, in diverse città si sono creati i "pedibus" per accompagnare a piedi i bambini a scuola. La casistica disponibile dimostra che non è necessario costruire nuove città, ma applicare in maniera più estesa possibile, i modelli migliori. La pianificazione non é cosa avulsa dalla vivibilità. Anzi. Perché se nelle simulazioni di progetti e nelle maquette che illustrano quel che sarà ci sono persone virtuali, poi, nella realtà, a passeggiare per le vie del centro come per quelle delle periferie, ad usufruire di una biblioteca, piuttosto che di un municipio, sono persone in carne ed ossa. Esiste una stringente interrelazione tra presenza ed organizzazione degli spazi verdi di quartiere e tempo passato dai bambini davanti la tv o con i videogiochi. Così diffusa è la consapevolezza della necessità di investimenti sulla mobilità alternativa, incentivando i trasporti pubblici o i veicoli elettrici, e dell'opportunità di spazi verdi attrezzati che possano favorire l'attività sportiva spontanea.

Una città sana passa naturalmente anche dalle pari opportunità. Bambini, anziani e disabili debbono avere la possibilità, tutti, di accedere all'attività fisica. Ma anche gli spazi a misura d'uomo sono un altro caposaldo per città più vivibili. Più si creano "interconnessioni" fra gli spazi urbani, più si favorisce la salute mentale e fisica dei cittadini. L'insieme di questi requisiti, di queste auspicabili offerte, sembra delineare un modello di città che si realizza più compiutamente in quelle medio-piccole. Oppure, traducendo l'assunto nelle nostre città più grandi, in quartieri. È dunque su quelli che bisogna lavorare, impegnandosi in operazioni di reiquilibrio delle difformità, ad esempio.

Quel che appare certo è che sarebbe necessario che venisse ostacolata, e non incentivata, l'espansione quasi infinita di tante nostre città. Evitando che il processo si realizzi con le identiche modalità che hanno permesso la vera dismissione di numerosi centri urbani italiani. Cioè prima allargandosi a macchia di leopardo, per guadagnare nuovi spazi, e poi, progressivamente procedendo a riempirli. Secondo modelli che si richiamano al disordine urbanistico e, non di rado anche ad una illegalità se non altro ideologica. Al contrario il vero sviluppo, il cambio di passo rispetto ad un passato che spesso richiama errori macroscopici colpevolmente reiterati, potrebbe essere quello di valorizzare l'esistente. Recuperando gli innumerevoli immobili dismessi, spesso da molto tempo, facendone riacquistare l'uso ai cittadini, arricchendo così i servizi di utilità pubblica.

Rifuggendo per quanto possibile da operazioni di abbattimento e ricostruzione. Fare tabula rasa del passato è ingiusto e pericoloso. Molto più responsabilmente si può riutilizzare, anche, quando possibile e vantaggioso per la collettività, alterando la primitiva destinazione d'uso. In questo modo si è proceduto in tutta Europa, recuperando, è il caso più significativo, le tantissime zone industriali, in gran parte dismesse, ai margini di tante città. Ma accanto a questa operazione sarebbe utile si affiancasse una valorizzazione, non occasionale, di piazze e parchi come punti di aggregazione.

La politica è urbanistica, perché il diverso modo di occupare lo spazio, che è conforme alla strutturazione della società, alle sue articolazioni, ai suoi conflitti, per certi versi ne costituisce la traduzione politica. Proprio per questo agli indirizzi urbanistici si dovrebbe prestare grande attenzione, adoperandosi perché siano improntati al bene comune. Non dimenticando, nel contempo, che le città sono a tutti gli effetti dei loro abitanti e per loro debbono essere pensate, modificate. Come professavano, ad esempio, i Greci. Per i quali non si affermò mai una terminologia netta ed univoca che distinguesse tra le città in quanto spazio abitato e la comunità dei cittadini.

Non è un caso che nei testi una azione che coinvolga i cittadini, non viene mai espressa con il nome della città ma con il termine che designa al plurale la comunità interessata. Insomma non è Sparta a dichiarare guerra ad Atene, ma gli Spartani agli Ateniesi. Così Polis é a tutti gli effetti "la comunità dei cittadini" e "l'agglomerato urbano". In sintesi la città é nei servizi ma anche nel sociale, ritenevano gli antichi. Una città che sia una sintesi tra "la Ville radieuse" de Le Corbusier, la città del domani organizzata in zone distinte dove la gente vive in torri immerse nel verde e lavora in zone separate le une dalle altre, e la città a sviluppo orizzontale immaginata da Wright.

La buona politica di casa nostra anche a questo deve guardare. Per recuperare autorità e per mostrarsi davvero capace di percorrere strade diverse. Moderna, ma non ignara del passato. Fare delle città delle buone città.

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