Una ricerca, condotta da Casa della Carità e Consorzio Aaster, decostruisce gli stereotipi sugli "zingari". Un popolo discriminato, ma tutt'altro che "nomade"?
Più di 1.500 rom e sinti intervistati, il 10% di tutti quelli presenti in Italia. Un'inchiesta "in profondità", condotta nei campi regolari e "abusivi", nelle baracche e nelle roulotte, ma anche nelle case popolari o negli appartamenti in affitto. Interviste ai "sinti" italiani, ai profughi della ex-Jugoslavia, ai migranti romeni e bulgari; nelle grandi aree urbane ma anche nei centri minori, nell'Italia dei piccoli campanili e degli 8.000 comuni.
E' il lavoro condotto da Casa della Carità e dal Consorzio "Aaster" di Aldo Bonomi, nell'ambito di un progetto europeo che ha coinvolto anche la Spagna, la Bulgaria e la Romania. «E' la prima volta», ci spiega Donatella De Vito, coordinatrice della ricerca, «che si promuove un'indagine di così ampio respiro. E i dati raccolti consentono, finalmente, di sfatare tanti pregiudizi?».
Lo 0,25% della popolazione?
Già, i pregiudizi: forse il primo e più importante riguarda i numeri. Quanti sono i rom e i sinti? A sentire giornali e tv, sembrerebbero un fiume in piena, inarrestabile e incontenibile. Qualche anno fa, un sondaggio condotto da Renato Mannheimer su un campione di italiani aveva chiesto, per l'appunto, di quantificare la presenza rom: solo il 6% degli intervistati aveva dato risposte vicine alla realtà. Molti (più della metà) risposero semplicemente "non so": ma tra coloro che provarono a fare qualche ipotesi, la stragrande maggioranza sparò cifre superiori al mezzo milione.
«Sono numeri», dice ancora Donatella De Vito, «che non trovano alcun riscontro. La nostra ricerca, condotta su dieci regioni - quelle dove da sempre si concentrano le presenze più significative - parla di circa 75.000 persone».
Facciamo due conti. Dieci regioni sono esattamente la metà di quelle esistenti in Italia: se anche ipotizziamo che nelle aree non toccate dalla ricerca ci sono altrettanti rom e sinti, il numero complessivo sale a 150.000. Significa lo 0,25% della popolazione. Nessun "fiume in piena", dunque, ma una esigua minoranza: gli abitanti di un singolo quartiere di Roma, disseminati però in tutto il territorio nazionale?
Discriminati ed esclusi
I dati relativi alle condizioni abitative, all'accesso al lavoro o ai servizi riservano poche sorprese, almeno per gli attivisti che conoscono da vicino la realtà dei rom e dei sinti.
Sono però un duro colpo per chi parla di "privilegi zingari": come quel comitato romano (sostenuto da autorevoli esponenti del Pdl) che ha di recente organizzato un presidio a Montecitorio, e secondo il quale essere rom significherebbe avere «casa gratuita, mezzi pubblici gratuiti, accesso più facile alle scuole materne?». E allora vediamoli un po' più da vicino, questi privilegi. Solo un terzo dei rom intervistati abita in una vera e propria casa: il 41% abita in campi regolari, il 24% in insediamenti "abusivi". Il 19% delle famiglie non ha accesso all'elettricità, il 22% non può conservare cibi in frigorifero, il 32% non ha l'acqua calda e il 23% non ha proprio l'acqua corrente, nemmeno fredda.
Mettendo insieme questi numeri, emerge che almeno un quarto dei rom e dei sinti non ha accesso alle condizioni minime di un abitare dignitoso.
Sempre un quarto delle persone intervistate non ha la tessera sanitaria né il medico di famiglia, e per curarsi può soltanto andare al Pronto Soccorso. Non basta. Tra i rom e i sinti con più di 15 anni, il tasso di occupazione (cioè la percentuale di coloro che hanno un lavoro) è del 34,7%, circa dieci punti in meno del dato italiano complessivo (44,3% secondo l'Istat). Molti rom sono lavoratori autonomi, mentre i dipendenti a tempo pieno e indeterminato sono appena il 6,7%.
«E' la loro cultura»?
Da cosa dipendono queste condizioni così estese di emarginazione? Non sarà mica la "loro cultura", la "propensione al viaggio e alla vita itinerante" ad escludere così tanti rom dall'accesso alla casa e al lavoro? Qui, la ricerca consente di sfatare pregiudizi radicati e diffusi.
In primo luogo, perché i rom e i sinti non sono affatto "nomadi": al contrario, molti di loro vivono in Italia da tempo, e risiedono da anni nello stesso Comune. Interpellati sul loro futuro, esprimono una forte volontà di restare dove sono, e spesso hanno anche reciso i legami con i paesi di provenienza (soprattutto nel caso dei rom della ex Jugoslavia).
In secondo luogo, perché le condizioni di vita cambiano radicalmente, a seconda che le persone intervistate abitino in case vere e proprie oppure in "campi", in baracche e roulotte ai margini delle città. Così, per esempio, tra chi vive in alloggi "normali" il tasso di occupazione è del 46%, addirittura superiore alla media italiana: la percentuale scende nei campi "regolari"(33%), e crolla nel caso degli insediamenti "abusivi" (24%).
Un dato analogo riguarda l'accesso ai servizi medici. Chi abita in casa, nell'89% dei casi dispone di una normale tessera sanitaria e dunque di un medico di famiglia. Per i residenti nei campi "regolari" la percentuale è grosso modo analoga (86,5%), mentre nei campi abusivi solo un terzo degli abitanti ha accesso ai normali servizi sanitari.
Cambiare si può: il ruolo della politica
L'emarginazione sociale dei rom non dipende dunque dalla loro "cultura", né tantomeno dalla loro "natura": a determinare la traiettoria di vita delle persone è invece la condizione abitativa. Stare in una casa "normale", o vivere in un campo, fa la differenza: e i rom e i sinti - come tutti - possono inserirsi con successo nella vita sociale e nel mondo del lavoro, se non sono relegati in insediamenti precari ai margini delle nostre città.
«Cambiare le condizioni di vita di queste comunità è possibile», conclude Donatella De Vito, «ma è necessaria una politica centrata sulle persone, sulla loro inclusione sociale e abitativa. L'anno passato sono state abrogate le ordinanze che disponevano "l'emergenza nomadi": ora bisogna superare la cultura dell'emergenza, quella che vede nei rom e nei sinti un problema di ordine pubblico o di sicurezza. Questo paese non ha bisogno di "emergenze", ma di politiche sociali serie e meditate».
Sergio Bontempelli