L'etnocentrismo, da qualsiasi parte arrivi, fa male: alle persone singole, ai gruppi, alla società nel suo complesso. Le considerazioni di uno psicoterapeuta "d'importazione".
«Gli italiani abbandonano i loro anziani?; le donne italiane sono tutte facili e inaffidabili?; la società qui è immorale e corrotta?». Stereotipi e generalizzazioni non sono appannaggio solo degli autoctoni e dei bianchi. Si ritrovano facilmente anche tra gli immigrati che, in qualità di "osservatori esterni" arbitrariamente si ritengono conoscitori di "come'è complessivamente la società italiana". Queste affermazioni, e ovviamente le convinzioni che ne derivano, rappresentano un ostacolo formidabile al dialogo e all'inserimento.
Uno degli aspetti più delicati, nei processi di conoscenza e scambio in contesti interpersonali e di socializzazione tra individui con appartenenze e riferimenti etnici diversi, è rappresentato dalle grosse differenze esistenti fra i bagagli dei costumi, dei valori e delle tradizioni. In teoria, queste potrebbero favorire l'evenienza dei processi virtuosi di collaborazione reciproca e convivenza civile. Ma la pratica è diversa: le ricerche svolte in quest'ambito dimostrano che l'etnocentrismo (la tendenza a giudicare tutto ciò che afferisce gruppi diversi dal proprio utilizzando i parametri della propria educazione) ha in genere il sopravvento e comporta la supervalutazione della propria cultura e la svalutazione di quella altrui. Su questo principio arcaico e ancestrale di "protezione" del proprio gruppo di appartenenza da tutto ciò che gli è estraneo, si costruiscono i pregiudizi e le paure che alimentano le generalizzazioni e gli stereotipi nei confronti degli altri "diversi". E questo viene fatto anche dagli immigrati rispetto agli autoctoni. E più ci si sente minacciati e vulnerabili, più viene fatto. Da questa chiusura autodifensiva nascono e si irrigidiscono le convinzioni che contribuiscono a tener separati e lontani immigrati e autoctoni, alla fine con danno di entrambi.
Cos'è che può aiutare a modificare un'impostazione cognitiva che impedisce di "costruire ponti" di comprensione e di convivenza sociale interculturale consapevole? Come fare sì che la comunicazione interculturale sia il mezzo per contrastare interpretazioni arbitrarie ed eliminare gli equivoci?
La cosa più sbagliata è negare le differenze, in nome di un malinteso senso di universalismo: non serve certamente a capirsi meglio e spinge invece ad attribuire le incomprensioni a caratteristiche negative dell'altro. Bisognerebbe invece impegnarsi ad esplicitare tutte quelle differenze attinenti i propri e gli altrui stili di comunicazione, le occasioni che generano incomprensioni, le modalità con le quali si gestisce complessivamente l'interazione, le norme culturali generali che stanno dietro all'incontro interpersonale.
E' un'operazione complessa, che potrebbe divenire più accessibile se gli amministratori locali, insieme alle organizzazioni e i gruppi di appartenenza etnica, i leader religiosi, le istituzioni come la scuola si rendessero protagonisti del miglioramento dei rapporti fra le diverse etnie presenti sul territorio locale. Mediazioni, incontri pubblici mirati al superamento di quei limiti cognitivi/emotivi che impediscono la co-costruzione sociale di una società italiana ormai diversa da quella che c'era una volta (per tutti quanti, autoctoni ed immigrati). Non bastano sicuramente le buone intenzioni o l'assunzione di atteggiamenti "politically correct". Ci vogliono interventi di comunità consapevolmente mirati per flessibilizzare, educare e riflettere assieme, attraverso interventi che amplifichino occasioni di dialogo e conoscenza con e tra le diverse fasce e gruppi della società civile. Essi devono tenere conto delle variabili psicosociali che incidono sul comportamento umano, in particolare in contesti complessi come quelli appunto multiculturali.
José Aguayo (psicologo psicoterapeuta)