Luca Aterini
Improvvisamente, dopo essere stato tanto snobbata, la politica torna per un momento ad affacciarsi dalla cima dell'attenzione pubblica. Le elezioni statunitensi che contrappongono Obama a Romney catalizzano gli sguardi da tutto il mondo. La politica - almeno ad alti livelli, parliamo pur sempre degli Usa - conta dunque ancora qualcosa, nonostante il cittadino «abbia perso ormai la fiducia nello Stato - come afferma il sociologo Zygmunt Bauman - non potendo questo più fare granché per soddisfare le richieste che gli provengono: mentre 60 anni fa il potere era nelle mani della politica, e la politica poteva dettare le regole, ora tra potere e politica c'è un netto smarcamento. La politica è rimasta ferma, mentre il potere è volato nel cyberspazio, o comunque al di fuori di ogni spazio nazionale», agguantato dalla grande rete della finanza.
In quest'ambiente oltremodo liquido, lo stesso Obama non è un deus ex machina, e si muove su acque assai agitate. Ma tra i due contendenti, rimane comunque l'unico scoglio al quale aggrapparsi. Questo è anche il giudizio di Noam Chomsky, celebre linguista statunitense che - intervistato da La Repubblica - afferma: «Non voterò per Obama ma per la candidata dei verdi, Jill Stein, solo perché mi trovo nel Massachusetts dove i democratici hanno una maggioranza blindata. Se fossi in uno stato in bilico, come l'Ohio o la Virginia, avrei cercato a tutti i costi di evitare una vittoria di Romney, che considero una iattura per noi e per il mondo. Ma tutto ciò non mi impedisce di essere molto critico sui trend americani: da un lato il paese è in mano ai super-ricchi e le ineguaglianze non cessano di aumentare; dall'altro i democratici sono ormai più a destra di quanto non lo fossero i repubblicani ai tempi di Nixon».
Tutto nero? Per Chomsky, sebbene da questa stagione elettorale non sia «venuto fuori niente di buono», l'unica speranza «è che "Occupy Wall Street" e altri movimenti dal basso continuino a far breccia nell'opinione pubblica, trasformandosi in un volano per il cambiamento». Sulle stesse pagine rincara la dose un altro guru della modernità, il sociologo Manuel Castells, ospite domani al Teatro dell'Arte di Milano: «Se guardiamo a valori come l'eguaglianza, la dignità delle donne, l'importanza della conservazione del pianeta, o anche i diritti umani fino alle sfide ai dittatori e agli autori di autentici genocidi; se guardiamo a tutto questo non possiamo negare il ruolo dei movimenti», che sono riusciti nel ragguardevole traguardo di ottenere «il supporto della maggioranza della popolazione per denunciare l'ingiustizia sociale e la complicità tra elités politiche e finanziare». Secondo Castells stiamo dunque vivendo una «fase costituente» che ci porterà a «costruire nuove forme di rappresentanza».
«È empiricamente chiaro - precisa il sociologo spagnolo - che gli attuali sistemi politici non rappresentano più i valori e gli interessi dei cittadini. Ma non c'è nessun progetto chiaro di una democrazia diversa». Ritorna alla mente il più caustico commento di Bauman, che sentenzia: «O si sta aprendo un nuovo capitolo per la storia del nostro pianeta, o siamo davanti solo a una grande carnevalata».
Non resta che sperare nella prima ipotesi suggerita. Ma la consapevolezza che i movimenti dal basso non possano racchiudere la risposta a tutti i problemi di questo nostro martoriato mondo rimane. Il loro ruolo (lodevole e assai importante, a dire il vero) almeno per il momento rimane quello di rappresentare una rottura, destando l'opinione pubblica dal sonno che tipicamente la contraddistingue, e indirizzarla così ad un cambiamento da parte della politica, che della pubblica opinione si immagina sia proprio il corrispettivo formalizzato.
Una risposta che provenga unicamente dal basso, invece, non sembra poter mantenere quello che promette. L'economista Jean-Paul Fitoussi, oggi su l'Unità, ci ricorda come per uscire dalla crisi sia alto il bisogno di una crescita fondata su investimenti nelle infrastrutture, nell'innovazione, nella green economy, nell'istruzione e nella formazione». Una via che potremmo chiamare di sviluppo sostenibile, ma che percorrere la quale - in questo nostro mondo globale - non possiamo fare a meno di andare oltre le belle parole e lo sdegno iniziale: compiuto il primo passo, quel che serve è una proposta politica, non solo una protesta politica.