Bruxelles: «Pilastro del rilancio». In Italia è confusione.
A metà ottobre, in occasione del 20esimo anniversario del mercato comune, la Commissione europea ha presentato l'Atto per il mercato unico II, che contiene le integrazioni alle dodici azioni prioritarie, già indicate nel 2011, per una nuova crescita che dovranno essere adottate rapidamente dalle istituzioni dell'Unione europea. Tra le quattro nuove grandi aree citate, la quarta comprende un tema già presente nell'Atto I, che viene ribadito: l'imprenditoria sociale. L'Unione europea punta, dunque, anche sulle imprese sociali per rilanciare l'economia. Imprese che già oggi svolgono un ruolo fondamentale perché occupano undici milioni di persone e rappresentano il 10% del totale delle imprese europee.
Una "economia alternativa" che si sta conquistando sempre più notorietà, tanto da essere arrivata al World Economic Forum di Davos dieci anni fa, spingendo i leader delle economia più avanzate a conoscerne e a riconoscerne i valori, tra il contributo allo sviluppo sostenibile e alla lotta alla povertà. Come ha spiegato il commissario al Mercato interno, Michel Barnier, l'imprenditoria sociale è diventata centrale per il nuovo modello europeo di crescita per tre motivi. Primo perché si tratta di imprese che richiedono molta manodopera e quindi offrono posti di lavoro e che inoltre hanno politiche di salario che escludono grosse disparità. Poi, perché i metodi di gestione sono basati su partnership innovative tra il settore privato e quello pubblico. Infine, perché sono fortemente radicate sul territorio e non delocalizzano. La sfida, adesso, è di far salire di scala questo modello imprenditoriale sociale.
E in Italia a che punto siamo? Secondo una recente ricerca di Iris Network (Istituto di ricerca sull'impresa sociale) le imprese sociali propriamente dette sono soltanto 365, ma questo numero così esiguo calcola soltanto le realtà che si sono adeguate formalmente alla normativa in materia (legge 118/05 e successivi decreti). Altrimenti sarebbero più di 85mila le aziende che, in Italia, avrebbero le caratteristiche per diventare imprese sociali. Nel nostro Paese, peraltro, esiste da anni una forma molto diffusa di impresa sociale: le cooperative, che sono circa 11mila, ma sono molto poche le cooperative sociali che hanno assunto la qualifica prevista dalla legge (43 su 365).
Se si guarda oltre i confini normativi e alle organizzazioni che si possono assimilare a imprese sociali - si legge nella ricerca - emerge un quadro inevitabilmente più frammentato. Un primo, importante, bacino di imprenditoria sociale è costituito dalle organizzazioni non profit. Ma la misura del potenziale di imprenditorialità sociale non riguarda il solo non profit. La legge riconosce la possibilità di assumere la qualifica di impresa sociale anche per imprese con forme giuridiche di origine commerciale a patto che queste ultime assumano ben precise caratteristiche a livello di mission, settore di attività, vincoli alla distribuzione degli utili, assetto di governance e sistemi di accountability. Da qui, appunto, il potenziale di 85mila imprese sociali. Anche se per la legge non si possono chiamare così.
Fausta Chiesa