A colloquio con Franco Pittau, coordinatore del Dossier Caritas Migrantes che annualmente "fotografa" la situazione italiana. Il 22° dossier è stato presentato il 30 ottobre a Roma e, contestualmente, in altre città italiane.

Ogni anno il Dossier definisce con un titolo l'aspetto su cui si vuole mettere più l'attenzione. Quest'anno è "Non sono numeri". Come mai?

«All'inizio in verità doveva essere "Non solo numeri" ma ci ha colpito molto il discorso del Papa nella Giornata internazionale del migrante, l'importanza di ragionare di persone ognuna delle quali è dotata di dignità inviolabile. Spesso anche le Convenzioni internazionali vengono violate insieme alla dignità e invece ci troviamo di fronte a veri e propri protagonisti storici della società odierna».

Rispetto al passato, il Dossier sembra evidenziare una maggiore disponibilità alla convivenza da parte degli autoctoni. E' così?

«Qualcosa in effetti è cambiato. Lo vediamo se prendiamo come esempio la comunità albanese che negli anni novanta era definita "comunità canaglia" nel discorso pubblico. Negli anni scorsi già si è cominciato a parlare di bande criminali circoscritte perché molti degli albanesi presenti hanno costruito una propria presenza, anche se riservata, incentrata su famiglia e lavoro. Poi sono aumentate, e questo non solo per la comunità albanese, le collaborazioni domestiche. A parte casi rari in cui non si costruisce una relazione, queste 750 mila lavoratrici (numero stimato) sono divenute vere e proprie ambasciatrici di accettazione. Sono entrate nelle famiglie e nelle loro relazioni affettive. Ma esiste anche un fatto politico. La Lega Nord, che della campagna contro gli immigrati ha fatto il suo cavallo di battaglia, ha visto intaccare in questo ultimo periodo la propria "purezza" e pesa anche il fatto che oggi, seppur con un ruolo specifico, ad occuparsi di immigrazione nelle istituzioni c'è  il fondatore della Comunità di S. Egidio che ha ben altra predisposizione. E da ultimo, si inizia a comprendere di come ci sia una contraddizione fra una ideologia negativa e la presenza, anzi la richiesta nelle aziende e nelle piccole imprese, soprattutto al Nord, di lavoratori e lavoratrici migranti. Così è inevitabile che le opinioni si modifichino».

Nonostante la crisi economica, i migranti funzionano meno come "capro espiatorio".

«Però continuano a funzionare come ammortizzatori sociali. Prima della crisi,  le loro prospettive occupazionali erano alte. Ora sono i primi ad essere licenziati. Il loro tasso di disoccupazione è aumentato ed è di 4 punti percentuali superiori a quello degli italiani. In pratica, lo dico in maniera problematica, i migranti ci conservano il lavoro fino a quando è possibile. Se il prolungamento del permesso per ricerca occupazione dopo il licenziamento fosse arrivato prima, avremmo salvato dalla irregolarità circa 100 mila persone. E questo avviene in un Paese che non investe sulla ricerca. A chi dice che i migranti rubano il posto di lavoro, va fatto presente che la manodopera immigrata continua a essere impiegata in settori snobbati dagli italiani, come l'agricoltura e l'edilizia.  Non possiamo decidere chi ha diritto a venire. Un mercato si apre per prendere chi serve, c'è occupazione di massa dove c'è carenza di manodopera.  La storia ci insegna che in tutti gli Stati l'immigrazione nasce dal bisogno concreto. In Italia, questo è un grave limite, c'è per chi è migrante scarsa possibilità di avanzamento. Gli italiani continuano a potersi inserire meglio e serve una maggiore dinamicità delle opportunità. Una nostra amica albanese diceva alla presentazione del libro: "siamo di cattiva pasta?". Ed è una delle tante plurilaureate, che parla più lingue, come il 50% dei migranti presenti ma che continuano a svolgere mansioni da operai. Qualcosa stona».

Ma è vero che c'è un calo degli ingressi?

«Si stima un aumento di 40 mila unità e questo dà un'apparente idea di immigrazione ferma. In realtà, lo scorso anno, sono "morti" 263 mila permessi di soggiorno e sono entrate 230 mila persone. In pratica mandiamo via, o rendiamo irregolari, quelli che sono qui, magari già qualificati e inseriti, e teniamo in piedi una assurda rotazione anche se non abbiamo il coraggio di definirla tale. L'Italia resta paese di immigrazione e questo a causa di un semplice fattore demografico. Da qui al 2065 perderemo 12 milioni di abitanti e abbiamo bisogno di immigrati. Già ora, un bambino su sette fra quelli che nascono è figlio di entrambi genitori stranieri. Possiamo prevedere, al di là di affermazioni non supportate dai fatti, che in Italia arriveranno fino al 2065, 213 mila unità annue. Sono gli italiani che invecchiano e muoiono. È vero che cambiano le rotte migratorie e che si parla di emigrazione verso paesi come la Cina, dove sta invece avvenendo un disastro demografico. La popolazione invecchia a causa della politica del "figlio unico". Io non credo che la Cina sostituirà l'Europa, che resta per chi emigra più interessante, più attraente per mille ragioni».

Però c'è da lavorare molto per costruire un tessuto sociale migliore, sia in termini di linguaggio che di approccio.

«Si tratta di ragionare su forma e sostanza. Rispetto alla forma io non sono mai stato così interessato, vorrei che non fosse enfatizzata per non farla divenire sostanza. C'è chi dice che non bisogna più dire la parola "straniero" chi la parola "extracomunitario"ecc.. Non vorrei che ci ritrovassimo ad avere una terminologia perfetta senza metterci il cuore nelle relazioni. La prima cosa importante è imparare a mischiarsi al destino delle persone avendo a cuore solidarietà e rispetto. Tempo fa, parlando con amici musulmani, li criticavo per i matrimoni imposti e per le modalità del ripudio. È stata una discussione franca e affettuosa, fra pari, fra persone che vogliono conoscersi. Sono convinto che la nostra mancanza più grave sia nel come trattiamo gli altri, più che nel come li definiamo».

Però poi si cozza con un sistema legislativo da cambiare?

«Sì, ci sono tante cose da cambiare: a partire dalla cittadinanza, fino al visto di ingresso, agli eccessivi pagamenti richiesti. Tante cose da rivedere. Abbiamo fatto numerosi errori in questi anni e oggi dobbiamo riparare. Il sistema migliore a mio avviso, per rendere accessibili e "sicuri" gli ingressi come esigono alcuni, è quello della sponsorizzazione. Un marchingegno mai utilizzato. Ma dovremmo essere sinceri per poter raccogliere consensi anche in chi è ancora convinto di poter chiudere gli ingressi. In 10 anni sono entrate più di 3 milioni di persone malgrado tutti i dispositivi e le risorse impiegate per impedirlo. La sponsorizzazione permetterebbe di "selezionare per sicurezza". Il sistema delle quote è complesso ma in fase di crisi non credo che possa restare perennemente aperto, magari quando l'economia riprende potremmo rivederlo ma oggi non possiamo far aumentare l'esercito dei disoccupati. Ai quasi 300 mila annui che entreranno si debbono sommare i 60 mila che riescono ad ottenere il ricongiungimento e poi i minori che entrano in età da lavoro. Per questo forse dovremmo attendere prima di innalzare il numero degli ingressi. E dovremmo riuscire a far sì che l'incontro con l'altro si traduca anche nella possibilità di portare dalla nostra parte chi non la pensa come noi».

Stefano Galieni

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