di Gian Paolo Prandstraller
Nell'articolo "Un bond targato Cambridge. L'università debutta in finanza" (La Repubblica, 2 ottobre 2012, p. 40) Enrico Franceschini - parlando dell'università di Cambridge - scrive: "Come una nazione o un'azienda, questa settimana la Cambridge University è entrata, per la prima volta nei suoi 800 anni di storia, nel mercato delle obbligazioni, emettendo titoli per un valore di 350 milioni di sterline, pari a circa 420 milioni di Euro.
Motivo: i soldi che riceve dallo Stato, dagli studenti, 9 mila sterline all'anno di tasse d'iscrizione a testa, da parte di questi ultimi e da illustri donatori, non bastano più per mantenere per l'appunto la sua posizione di primato e di prestigio mondiale. Ce ne vogliono altri. E così l'università ci mette il suo nome, sperando di raccogliere frutti".
E prosegue rivelando che gl'investitori hanno corrisposto positivamente all'offerta dell'università e che Moody's (l'agenzia di rating), le ha assegnato una triplice A (cioè il massimo dei voti). È noto che Cambridge è una grande università aperta agli affari. Questa disponibilità è pubblicamente riconosciuta e garantita dall'invito rivolto agli operatori economici a "collaborate with Cambridge". Nel sito internet www.cam.ac.uk sotto la sigla Business Partners si legge:
"Cambridge has many business partners. Together, we transform ideas into ground-breaking applications and products. These collaborations range from research projects and enterprise initiatives through to recruitment and the provision of executive and professional development courses. The Research Office works with external organisations to develop and maximise research outcomes for long-term mutual benefit. Cambridge Enterprise is responsible for the commercialisation of technology arising from the University's research."
Franceschini nota che la pratica di emettere bond da parte di università importanti si è già attestata negli Stati Uniti, presso istituti universitari come la Stanford, la Columbia, le associate alla Ivy League, cioè la lega delle università private.
Il fenomeno è ormai diffuso, e il fatto che una celebre università europea stia emettendo bond, rivela che anche in Europa si diffonde l'idea (non nuova) che l'università è oggi un'impresa, in cui si producono servizi intellettuali, e che come tale ha bisogno di molti soldi per incrementare le proprie strutture e finanziare la ricerca (i cui risultati devono essere commercializzati).
Il fenomeno fa emergere un problema molto serio per le università italiane che finora non si sono adeguate abbastanza al modello di università-impresa vincente ormai nel mondo avanzato. Sono in atto da noi, è vero, iniziative per raccogliere fondi con vari mezzi.
Scrive Cristina Lacava in un articolo intitolato: "L'università apre le porte ai ricercatori (di finanziamenti)". In Donna, 13 ottobre 2012. "L'università boccheggia: il fondo di finanziamento ordinario (FIO), principale entrata, è sceso da 7,9 miliardi nel 2009 a 7,1 nel 2012. Le tasse non possono per legge superare il 20% del contributo statale. Il blocco del turnover ha tagliato le risorse per i docenti. Gli atenei si rimboccano le maniche e spremono le meningi".
In America vige il sistema del fundraising (la raccolta di fondi per l'università). Da noi c'è la legge 388 del 2000 (art. 56) in base alla quale i privati possono dedurre dal reddito le erogazioni fatte a favore dell'università, senza limiti d'importo.
Ma è molto dubbio che questa possibilità sia sufficiente a sanare la debolezza economica dell'università italiana. La raccolta dei fondi per altre vie sarà di fatto possibile solo quando l'università sia accreditata e famosa. Operazioni come quelle compiute dall'università di Cambridge sono fattibili se l'università abbia la capacità concreta di realizzare ricerche i cui risultati possano essere posti sul mercato.
Il problema della raccolta dei fondi divide le università in grandi, e credibili, e piccole; queste ultime non dotate di affidabilità in termini d'insegnamento e di ricerca. Simile distinzione a mio parere aprirà lo spinoso problema d'una corsia privilegiata (nella raccolta di fondi diversi da quelli concessi dallo Stato) delle grandi università rispetto alle piccole. Cioè solo "alcune" grandi università potranno compiere le operazioni finanziarie-che diventeranno concretamente impossibili alle piccole.
È dunque prevedibile che nei prossimi anni assisteremo al potenziamento d'un numero molto limitato di università e alla sostanziale emarginazione delle altre? Potrebbe verificarsi anche in Italia una ricerca accanita di soldi da parte delle università che sapranno offrire qualcosa in termini di servizi intellettuali prestati alla società?
L'ipotesi appare plausibile. Le grandi università italiane dovranno offrire prodotti utilizzabili in sede economica per rinforzare la propria struttura. Quelle incapaci di attuare attività produttive rimarranno fatalmente ad uno stadio di degrado e d'insufficienza. Difficile è prevedere ciò che realmente accadrà nei casi singoli.
Ma si può pensare che, se il paese vorrà avere "alcune" università situate nei posti avanzati delle graduatorie generali - che per ora le vedono collocate molto lontano dal top, anche se si tratta di università storiche - dovrà considerare l'università come un'impresa, e curare con la massima attenzione i processi finanziari collegati al mondo universitario.
prandstraller@tin.it