Cosa devono chiedere un bravo cittadino e un popolo maturo a un bravo politico e a una degna classe dirigente che hanno ricevuto il mandato di rappresentarli? Un riflesso condizionato figlio di questo tempo suggerisce con etica e rabbia la rivendicazione del rispetto dei comandamenti civici «non rubare» e «non sprecare», ma a costo di essere impopolari ci viene da dire che rubare - pratica odiosa e ripugnante - a volte può paradossalmente rappresentare il danno «minore». Perchè una volta scoperto, chi ruba - se colpevole e se la legge funziona - lo si va a prendere, lo si processa, lo si condanna e se non si è una repubblica delle banane lo si allontana dalla gestione della cosa pubblica. Un rimedio non c'è, invece, all'incommensurabile danno che la politica può fare quando non è capace di svolgere il ruolo per il quale è stata concepita. Che è quello - oltre al generico «buon governare» che significa tutto e niente - di mettere in pratica la vera Politica.

E che tradotto con termini necessari come l'alba di ogni giorno significa avere un bagaglio di saperi, un progetto, una visione, una stella polare. Che non è l'ideologia ma la capacità di guidare una comunità, una città, una regione, un paese, comprendendone la natura, i suoi cambiamenti, le sue contraddizioni, le sue sfide, le sue fragilità, la sua forza. Che significa guidare il presente immaginando il futuro. Un futuro che «accade» un po' più in là del proprio orto. Che significa avere il pudore di candidarsi a governare se si ha davvero qualcosa da dire, da fare, da proporre. Esempio lampante della mancanza di tutto ciò, amplificato dallo scontro strumentale fra partiti che umilia il «sacro mandato popolare» del vero buongoverno (che va molto ma molto più in là del ruolo di amministratore di condominio di un'entità territoriale) è il Caso Province. Ovvero il ridisegno dell'assetto istituzionale varato in questi giorni dall'esecutivo Monti. Che ereditando dal governo precedente la fanfaluca dell'abolizione di tutte le Province - fintamente decisa come tre amici al bar, dopo uno spritz, giurano che un giorno scalaranno l'Himalaya in braghe corte e infradito - ci ha creduto per davvero e qualcosa ha partorito. Infatti ne sta facendo fuori trentacinque su ottantasei.

E se il governo successivo non riproporrà promesse da bar, potrebbero sparire tutte. Come tutta l'Italia ha capito che è giusto e necessario fare. Le cronache le abbiamo lette. E ci consegnano, in ordine, questi fatti. Uno: la richiesta del governo centrale alla Regione Veneto di proporre un progetto di riduzione e riordino delle sette province venete. Due: l'incapacità della Regione - con protagonista particolarmente negativo il Consiglio regionale - di dare seguito a ciò con una proposta ragionevole e ragionata. Tre: la decisione del governo, vista la riproposizione dello status quo da parte del sedicente campione di «autonomismo» che la Regione si proclama a piè sospinto, di varare un «improbabile » provvedimento frutto dell'insipienza altrui. Quattro: la disponibilità del ministro Patroni Griffi, comunque, a rivedere lo schema se il Veneto si degnerà di esprimere qualche vagito progettuale.

Sia chiaro. Il vizio parte dalla testa. L'incucio all'italiana di voler conservare più enti intermedi possibili (poltrone, interessi, privilegi, ecc) e il condizionamento lobbistico dei partiti che sostengono Monti, ha fatto sì che le decisioni dei ministri tecnici del premier procedessero con il solo e chiaro intento di tagliare i costi della politica in ossequio alla spending review. Quindi, alla fine, visto il pilatesco smarcamento del Veneto che ha deciso di non decidere, ha messo in piedi un riassetto «a-progettuale», anche se è stato così intelligente da lasciare aperte alcune strade. A cominciare dall'ancora possibile realizzazione di una grande città metropolitana nel Veneto orientale che andando oltre Venezia faccia massa critica con Padova e Treviso costituendo la Ve-Pa (Venezia-Padova) o la famosa e non più fumosa Pa-Tre-Ve di cui si parla da qualche decennio. E che è, nei fatti, una naturale rete di economia, saperi, infrastrutture e relazioni perfettamente ascrivibili all'idea di «polo metropolitano ». Sul genere di tutti quelli che si stanno istituzionalizzando nel mondo attraverso un processo di neo-inurbazione basato sulle dinamiche socio-economiche che invitano a gestioni virtuose e «risparmiose » delle risorse nell'ambito delle «architetture comunitarie» del futuro. E qui si innestano il grande paradosso e la grande polemica che sta sorgendo. Perchè l'unico vero e concreto progetto arrivato sul tavolo del governo, la realizzazione di una città metropolitana con Venezia e Padova ed eventualmente Treviso, è stato messo nero su bianco da due sindaci del Partito Democratico, Giorgio Orsoni e Flavio Zanonato, ovvero del partito che il Veneto - tradizionalmente di centrodestra e oggi retto dall'alleanza Lega- Pdl - non l'ha mai governato.

Non sappiamo se alla fine la «rivoluzione» di Ve-Pa (o della Pa-Tre-Ve) andrà a compimento. E, perfino, non è nemmeno una questione di merito, ovvero se tale ridisegno sia giusto o sbagliato (per tutto il mondo veneto del «fare» è giusto). La verità, ripetiamo, è che chi governa il Veneto è stato completamente assente dalla «regìa» del proprio riassetto istituzionale. «C'era poco tempo», si è giustificata più volte la Regione. Potrebbe essere, anche se tre mesi sono molto di più della settimana che ci hanno messo gli uomini di Monti a tirare le loro righe sui nuovi confini delle Province. Ma siccome in ballo c'è il futuro di un intero territorio, si sarebbe potuto fare come si fa nelle aziende di questa terra quando si deve portare a casa un risultato strategico. Ci si chiude in una stanza giorno e notte e finchè non c'è una soluzione non si esce. Tutti i giorni, tutte le settimane, per tre mesi. Soprattutto se - posto che un progetto lo si abbia - chi deve decidere lo può fare dall'alto e dall'agio dello stipendio di novemila euro al mese netti che i nostri politici regionali percepiscono. Soldi che vengono loro elargiti senza avere alcuna responsabilità penale e civile. Nel loro caso restava quella politica, ma in quest'unica strapagata prerogativa hanno fallito. Chi ci governa, insomma, non ha speso una parola una per proporre nulla di nulla. C'è un intero «popolo» - sostantivo spesso brandito dai politici che fanno difficoltà a decidere nonostante il già acquisito mandato del popolo stesso - che attende di capire se il decisore dei destini di questa terra ha qualche idea - al di là di rispettabili ma spesso velleitari progetti ideologici - da mettere sul piatto della partita del Veneto futuro. Siamo qui ad aspettare che qualcuno batta un colpo. E poi magari vada a dirlo a Roma.

Alessandro Russello

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