Aspettando le elezioni. Dal 2001 a oggi il Paese è stato guidato dal Partito Nazionalista del Bangladesh, formazione conservatrice e militarista, alleato con il Jamaat-e-Islami, il maggiore partito islamista del Paese. Il mandato del governo e del primo ministro Begum Khaleda Zia è scaduto il 27 ottobre scorso, e il Paese dovrebbe andare alle urne a gennaio 2007 per rinnovare l'esecutivo. Ma la strada per le elezioni è lastricata di polemiche. Alla scadenza del mandato, per organizzare il voto di gennaio, il governo aveva designato come capo dell'esecutivo ad interim l'ex giudice della Corte Suprema K.M. Hasan. Ma l'opposizione, una coalizione di quattordici partiti di sinistra guidati dalla Awami League e dalla sua leader Sheikh Hasina, si era scagliata contro la decisione: la posizione filogovernativa di Hassan, secondo la Awami League, lo rendeva incompatibile con il compito a lui assegnato, cioè di organizzare le elezioni in modo equo e imparziale. Le proteste dell'opposizione sfociarono in violenti scontri di piazza fra manifestanti e polizia: in cinque giorni, dal 27 ottobre, si contarono venticinque morti e centinaia di feriti. La carica ad interim è stata poi assunta dal presidente bengalese Iajuddin Ahmed, ma i problemi non sono finiti. Sangue e barricate. Agli inizi di novembre la leader della Awami League ha posto al governo undici richieste tese a garantire, secondo Sheikh Hasina, l'imparzialità del voto. Fra le altre cose, il maggior partito dell'opposizione chiede il rifacimento delle liste elettorali, in cui sarebbero stati inseriti dieci milioni di elettori inesistenti, la rimozione dai posti di potere di trecento ufficiali fedeli al Partito Nazionalista del Bangladesh, l'eliminazione dagli edifici pubblici dei ritratti del premier uscente. Ma soprattutto, la Awami League chiede di riorganizzare completamente la Commissione elettorale, rimuovendo il suo attuale direttore, M.A. Aziz. Al governo aveva posto un ultimatum: se non avessero accettato tutte le richieste entro il 12 novembre, la Awami League avrebbe organizzato un blocco totale dei trasporti e delle comunicazioni. E così è stato: da domenica, e per quattro giorni, la capitale Dacca è rimasta isolata dal resto del Paese. I manifestanti hanno bloccato le vie d'accesso alla città, le ferrovie e i mezzi di trasporto pubblici, dando fuoco a autobus e automobili. La polizia ha cercato di disperdere i manifestanti, lunedì, e negli scontri che ne sono seguiti sono morte almeno due persone, un centinaio sono rimaste ferite. La maggior parte delle scuole, delle fabbriche e dei negozi della capitale è rimasta chiusa. Il presidente Ahmed aveva minacciato di dispiegare l'esercito nelle strade per fermare la protesta. Minaccia però subito ritirata, a causa dell'opposizione degli stessi alti ufficiali delle forze armate e dei consiglieri del presidente per la sicurezza. Sheik Hasina si è rivolta alla popolazione: "Portate pazienza ancora qualche giorno. Dovranno soddisfare le nostre richieste". Oggi la decisione di sospendere il blocco fino a domenica, per consentire al Paese di tirare il fiato. Ma l'ultimatum è solo rimandato: "Siamo pronti a ricominciare, da lunedì".

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