Luigi La Spina

I risultati delle elezioni siciliane, così sorprendenti e significativi, hanno suscitato reazioni ancor più spassose e stimolanti del solito. Per limitarci ai principali politici nazionali, Bersani, leader di un partito che ha visto calare i suoi consensi, si è accontentato della vittoria di Crocetta, pur senza una maggioranza, per evocare addirittura la storia. Alfano, di fronte al collasso del Pdl, ha sfidato l'insondabile parlando di un esito «straordinariamente positivo».

I politologi, poi, hanno giustamente cercato di proiettare il verdetto siciliano sul prossimo voto nazionale, con tutte le variabili del caso, a cominciare dalle legge elettorale. Sia i commenti un po' grotteschi dei protagonisti della nostra scena pubblica, sia le considerazioni molto interessanti degli esperti, però, hanno trascurato un aspetto che si potrebbe definire «pre-politico». Un aspetto che, invece, è stato subito colto dal nostro presidente del Consiglio.  

Monti, infatti, con la consueta finta ingenuità del tecnico, ha osservato che il suo governo, pur «maledetto» per i sacrifici che ha imposto ai cittadini, è, comunque, «più gradito dei partiti».

Il premier, dimostrando una sensibilità politica ben più acuta dei professionisti della categoria, ha capito che gli italiani condizionano il loro voto, o il loro non voto, soprattutto alla disponibilità concreta, immediata e in proporzione rilevante, da parte della classe politica tradizionale, alla condivisione di quei tagli al tenore di vita che tutti i cittadini stanno compiendo in questi mesi. Un giudizio che antepone alla valutazione dei programmi, alle promesse dei leader, persino al profilo individuale dei candidati, la dimostrazione di aver compiuto atti rilevanti che manifestino, indubitabilmente, la volontà di non sottrarsi al comune destino dei sacrifici.

Se si va a cercare nel profondo legame comune che unisce le astensioni, i voti al movimento di Grillo, le deludenti percentuali attribuite a un po' tutti partiti della cosiddetta seconda Repubblica, si troverà l'esigenza di sanare quella divisione tra morale e politica che è il fondamento della scienza della società pubblica, a partire da Machiavelli. In una accezione, però, in cui l'etica sfugge al tradizionale moralismo qualunquistico, magari un po' ipocrita e bigotto, per esigere la testimonianza indispensabile di una legittimità davvero tutta politica: quella che permette all'eletto di avere la dignità di rappresentare il suo elettore. Perché ne condivide gli interessi più forti e i sentimenti primari.

Ecco il perché di quella apparente contraddizione che, con sottile perfidia intellettuale, Monti ha ieri rivelato. Gli italiani, pur protestando in piazza e mugugnando in famiglia e con gli amici, comprendono la necessità di rinunce, anche molto dolorose, alle abitudini di vita alle quali, da decenni, si erano concessi. Ma non sopportano il protervo rifiuto della cosiddetta «casta» politica a tagliare drasticamente stipendi, rimborsi, privilegi. Insomma, ad adeguarsi alla media delle condizioni di esistenza dei cittadini comuni.

 

Il successo del «Movimento cinque stelle» non sta, in maniera prevalente, nelle sparate demagogiche di Grillo, nell'auspicato e insensato ritorno alla lira, nello spregiudicato sfruttamento dei risentimenti anti-tedeschi e anti-europei. Ma nella speranza che «uomini nuovi» mettano in pratica, davvero, le intenzioni espresse, subito dopo il voto, da una giovane eletta al Consiglio regionale siciliano: «La prima cosa? Lo sanno tutti: ci ridurremo lo stipendio a 2 mila e 500 euro netti, contro i 16 mila e persino i 21 mila che si attribuiscono gli altri».

E' troppo spudorato e inaccettabile, ormai, il divario tra le promesse della classe politica e la realtà dei fatti compiuti: il dimezzamento dei senatori e deputati non è mai stato varato, le riduzioni di stipendi e vitalizi, quando sono state approvate, sono state caricate sugli eletti delle prossime legislature, il livello delle retribuzioni per un servizio che si deve alla comunità mette i rappresentanti del popolo in una condizione di privilegio sociale che né le competenze professionali, né quelle culturali e intellettuali possono, nella media, giustificare.

Se non si ha la sensibilità, veramente tutta politica, di capire l'esigenza di questa precondizione morale alla rappresentanza dei cittadini, è abbastanza inutile discettare sul proporzionale o sul maggioritario, dividersi tra liberisti e solidaristi, escogitare alleanze elettorali effimere e improduttive e, persino, scegliere candidati più o meno seduttivi. Monti, trasformando il sarcasmo sulla sua sobrietà, sul suo eloquio vagamente soporifero, ma all'occasione urticante, sulla sua non mascherata punta di saccenza accademica in uno stile di governo, ha compreso, più di tanti politici, il sentimento prevalente degli italiani. Chissà che quello stile non gli serva ancora.

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