I pm: "A giudizio boss e uomini dello Stato".

Dopo quattro anni di indagini, inizia l'udienza preliminare. L'atto d'accusa della Procura è in 120 faldoni, in cui sono raccolti i verbali di 6 pentiti e 67 testimoni. Ecco la ricostruzione dell'inchiesta e il ruolo dei principali protagonisti.

di SALVO PALAZZOLO

I primi della lista sono i capi mafiosi: Totò Riina, Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca e Antonino Cinà. Tutti gli altri imputati sono uomini delle istituzioni: gli ex ministri Calogero Mannino e Nicola Mancino. Poi, un politico di oggi, il senatore Pdl Marcello Dell'Utri, che nel 1992-1993 era un imprenditore di successo e meditava già di fondare un grande movimento politico fatto su misura per l'amico di una vita, Silvio Berlusconi.

Eccoli, i nomi che questa mattina verranno chiamati dal giudice dell'udienza preliminare Piergiorgio Morosini nell'aula bunker del carcere palermitano di Pagliarelli. Sono gli imputati del processo per la trattativa mafia-Stato. L'elenco si completa con gli ex vertici del Ros dei carabinieri, i generali Mario Mori e Antonio Subranni, il colonnello Giuseppe De Donno. Fra gli imputati c'è anche il figlio dell'ex sindaco mafioso di Palermo, Masimo Ciancimino. In tutto, dodici persone.

Comunque andrà a finire, è già un processo senza precedenti quello che chiedono i pubblici ministeri di Palermo: il pool coordinato dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia vuole portare sul banco degli imputati i vertici della mafia e alcuni vertici dello Stato in carica nella stagione terribile delle bombe. Era la stagione in cui tutti gli uomini delle istituzioni dichiaravano di essere per la linea dura contro i mafiosi che avevano ucciso Falcone e Borsellino. In realtà, qualcuno avrebbe trattato con i boss. Nella migliore delle ipotesi, per evitare altre stragi. Nella peggiore, per accreditarsi come nuovo referente dei mafiosi. Poco importa ai pm di Palermo, che hanno scritto nella richiesta di rinvio a giudizio firmata a luglio: "Hanno agito per turbare la regolare attività dei corpi politici dello Stato Italiano e in particolare del governo della Repubblica". E' questa l'accusa per tutti, mafiosi e uomini delle istituzioni. Solo l'ex ministro Mancino risponde di falsa testimonianza. Massimo Ciancimino, che nel 2008 ha avviato con le sue dichiarazioni questa  indagine, ma poi si è perso per strada, è accusato di calunnia nei confronti dell'ex capo della polizia Gianni De Gennaro e di concorso esterno in associazion mafiosa.

E' in questa lista di nomi il processo per la trattativa Stato-mafia, che viene chiesto dal procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia e dai sostituti Nino Di Matteo, Lia Sava, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Sul rinvio a giudizio deciderà il giudice Morosini, probabilmente fra un mese. Prima, dovranno essere affrontate diverse questioni preliminari. Alcuni imputati chiedono il trasferimento del processo ad altra sede: Mancino punta ad essere giudicato separatamente, al tribunale dei ministri. Questa mattina, saranno avanzate le richieste di costituzione di parte civile: le hanno già annunciate il governo, i comuni di Palermo e Firenze, poi anche il comitato delle Agende Rosse di Salvatore Borsellino.

Ecco la ricostruzione dell'indagine sulla trattativa, attraverso i principali protagonisti:

Calogero Mannino - Antonio Subranni

Secondo i pm di Palermo, sarebbe stato l'ex ministro per gli Interventi straordinari nel Mezzogiorno ad avviare la trattativa con i vertici di Cosa nostra, all'inizio del '92, perché temeva di essere ucciso, come il suo compagno di partito Salvo Lima. Avrebbe rassegnato le sue preoccupazioni al maresciallo Giuliano Guzzelli, che pur non facendo parte dei reparti investigativi dell'Arma era in ottimi rapporti con l'allora comandante del Ros Antonio Subranni. Mannino avrebbe avuto un ruolo nella trattativa anche nel 1993, "esercitando  -  scrivono i pm  -  indebite pressioni finalizzate a condizionare in senso favorevole a detenuti mafiosi la concreta applicazione dei decreti del 41 bis". L'autista dell'allora vice direttore del Dap, Francesco Di Maggio, ha parlato di una telefonata di Mannino, a cui Di Maggio avrebbe risposto duramente: "A me non possono chiedersi certe cose".

Mario Mori - Giuseppe De Donno - Massimo Ciancimino

Dopo l'allerta di Mannino, sarebbero stati i carabinieri del Ros ad avviare il dialogo segreto fra Stato e mafia, tramite l'ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino: l'allora vice comandante del raggruppamento, il colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno iniziarono ad incontrare riservatamente Ciancimino. Il figlio dell'ex sindaco, Massimo, che dal 2008 collabora con i magistrati, sostiene che suo padre avrebbe fatto da tramite fra gli ufficiali dell'Arma e il vertice di Cosa nostra. I carabinieri hanno invece sempre negato la trattativa, sostenendo che il loro intento era solo quello di far collaborare con la giustizia Vito Ciancimino. Mori sostiene inoltre di aver incontrato l'ex sindaco solo dopo la strage Borsellino, del luglio 1992. Secondo Ciancimino junior, invece, i primi incontri dell'ufficiale col padre sarebbero stati già a giugno.

Salvatore Riina - Antonino Cinà

Il capo di Cosa nostra avrebbe gestito la trattativa Stato-mafia, tramite Vito Ciancimino, recapitando un "papello", ovvero un foglio con alcune richieste allo Stato: l'abolizione del 41 bis, la revisione dei processi e della sentenze, il via libera alla dissociazione anche per i mafiosi. Secondo la ricostruzione della Procura, il papello sarebbe stato consegnato da Riina a Vito Ciancimino, tramite un intermediario, il medico del capo di Cosa nostra, Antonino Cinà. Attraverso Ciancimino il documento sarebbe poi finito nelle mani dei carabinieri, che però hanno sempre negato di averlo ricevuto. Racconta il pentito Giovanni Brusca che nel giugno 1992, Riina disse che la trattativa doveva essere accelerata, "attraverso un colpetto". E fu ucciso Paolo Borsellino, che probabilmente aveva scoperto il dialogo fra Stato e mafia.

Nicola Mancino

L'ex ministro dell'Interno è accusato di falsa testimonianza e non di attentato a un corpo politico, come tutti gli altri indagati. L'ex ministro della giustizia Claudio Martelli sostiene di avergli detto dell'iniziativa del Ros di avviare un colloquio con Ciancimino. "Gli chiesi di attivarsi per impedire quei contatti", ha ribadito anche di recente Martelli. Mancino nega di aver mai parlato con Martelli del Ros e di Ciancimino. Secondo la Procura di Palermo restano misteriosi i motivi per cui Mancino sostituì all'improvviso al Viminale Vincenzo Scotti, proprio nei giorni della trattativa Stato-mafia, a fine giugno 1992. La Procura ritiene che Scotti fosse per la linea dura contro i boss. Contro Mancino, anche le dichiarazioni del pentito Giovanni Brusca: "Riina mi disse che Mancino era il terminale ultimo della trattativa".  
 
Bernardo Provenzano

Dopo l'arresto di Totò Riina, catturato dal Ros nel gennaio 1993, i boss di Cosa nostra avrebbero proseguito la trattativa Stato-mafia con l'altro capo corleonese, Bernardo Provenzano, che con Vito Ciancimino ha sempre avuto un rapporto privilegiato. Ma anche Ciancimino, intanto, era finito in cella, dal dicembre 1992. Secondo il racconto di Massimo Ciancimino, il nuovo intermediario di Cosa nostra sarebbe stato Marcello Dell'Utri. Nel 1993, fra maggio e luglio, i mafiosi tornarono a far sentire le proprie richieste attraverso le bombe, scoppiate a Roma, Milano e Firenze, che fecero 10 morti. Al Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria  fu imposto un altro direttore, Adalberto Capriotti, al posto di Nicolò Amato, e iniziarono strane manovre per alleggerire il carcere duro ai mafiosi. Provenzano fu poi arrestato nell'aprile 2006: secondo i pm, il boss sarebbe stato protetto dal generale Mori, che per questa ragione è sotto processo a Palermo per favoreggiamento.  

Marcello Dell'Utri  - Giovanni Brusca - Leoluca Bagarella

Il ruolo di Dell'Utri, iniziato secondo i pm nel 1993, sarebbe proseguito anche l'anno successivo, quando Silvio Berlusconi divenne presidente del Consiglio. Scrivono i pm: "I capimafia Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca prospettarono al capo del governo in carica Berlusconi, per il tramite di Vittorio Mangano (deceduto) e di Marcello Dell'Utri, una serie di richieste finalizzate ad ottenere benefici di varia natura per gli aderenti all'associazione Cosa nostra (tra l'altro concernenti la legislazione penale e processuale in materia di contrasto alla criminalità organizzata, l'esito di importanti vicende processuali e il trattamento penitenziario). Ponendo l'ottenimento di detti benefici come condizione ineludibile per porre fine alla strategia di violento attacco frontale alle istituzioni".  

Giovanni Conso - Adalberto Capriotti

Nell'ambito di un'inchiesta bis, l'allora ministro della Giustizia Giovanni Conso è accusato di false dichiarazioni al pubblico ministero. I pm di Palermo gli contestano di aver detto il falso a proposito della mancata revoca di 400 provvedimenti di 41 bis, nel novembre 1993. L'ex Guardasigilli ha sempre detto di aver preso questa scelta in solitudine. La Procura di Palermo sostiene invece che così non fu dopo aver ritrovato una nota dell'allora direttore del Dap, Adalberto Capriotti, che nel giugno 1993 consigliava a Conso di allegerire il carcere duro per i mafiosi, al fine di creare un clima "più distensivo nelle carceri". Anche Capriotti è indagato per false dichiarazioni al pubblico ministero, ma la posizione sua e quella di Conso andranno a giudizio solo dopo la conclusione del processo che riguarda i dodici imputati.

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