Nel nostro Paese è ricominciata la corsa all'oro nero, ed è al mare che il governo italiano starebbe puntando. L'installazione di piattaforme petrolifere di fronte alle coste, dall'Adriatico al Mare di Sicilia, dallo Ionio al golfo di Oristano, sembra essere uno dei punti principali della nuova strategia del ministro allo Sviluppo economico Corrado Passera, il cui intento è quello di "raddoppiare entro il 2020 la produzione di petrolio e gas", portando la nostra cosiddetta "autonomia energetica" dal 7 al 14%.

Ma le associazioni ambientaliste, con Greenpeace, Legambiente e Wwf in prima fila, non ci stanno. Al centro della loro battaglia l'articolo 35 del decreto "Cresci Italia" che porterebbe il nostro Paese a più di un passo indietro rispetto alle precedenti scelte di tutela ambientale in materia di trivellazioni.

Nel giugno di due anni fa, dopo l'incidente alla piattaforma Deepwater Horizon nel Golfo del Messico, l'allora ministro all'Ambiente Stefania Prestigiacomo aveva infatti approvato il decreto legge 128/2010 che innalzava da 5 a 12 miglia il limite costiero entro il quale autorizzare prospezioni e ricerca di idrocarburi in prossimità di aree marine protette. Un provvedimento non certo rivoluzionario (il limite fu innalzato infatti solo per le zone dall'ecosistema più delicato e non per le altre) ma per le associazioni era pur sempre un buon punto di partenza perchè poneva pur sempre dei limiti che prima non c'erano.

Ora invece, il nuovo articolo 35 estende sì a 12 miglia da tutte le coste, potette o no, il limite per le trivellazioni in mare alla ricerca di idrocarburi. Con una precisazione: la fascia off-limits non partirà più dalle linee di base (ovvero quelle che includono golfi e insenature), ma dalle linee di costa, cioè dalla battigia. Il ché implica distanze molto diverse da zona a zona. Non solo: il decreto fungerà anche come una sorta di sanatoria in quanto permetterà a tutti i procedimenti per la prospezione, ricerca ed estrazione di petrolio bloccati dal precedente decreto di rientrare nei giochi. Così, se in Italia le piattaforme sul mare già attive sono 9, presto potrebbero diventare 70. In ballo ci sono infatti 19 permessi di ricerca già approvati, più 41 richieste di permesso.

"Mettendo insieme tutte le istanze si ottiene un'area di potenziale estrazione più grande dell'intera Sicilia" lamentano le associazioni. La paura, infatti, è che questi permessi arriveranno a comprendere anche numerose aree marine protette, con rischi di inquinamento altissimi. E tutto questo, "per un ritorno in termini economici e occupazionali davvero esiguo". Secondo le stime del Dipartimento per l'Energia del ministero dello Sviluppo economico, ogni anno in Italia si consumano più di 70 milioni di tonnellate di greggio, per lo più provenienti da fonti estere, mentre nei nostri fondali marini ci sarebbero 10,3 milioni di tonnellate di petrolio di riserve certe. Se nel 2011 la quota estratta in Italia soddisfaceva circa il 7% del fabbisogno nazionale tra terra e mare, per le associazioni "stando ai consumi attuali le nostre riserve coprirebbero il fabbisogno nazionale per sole 7 settimane". Non solo: "Anche attingendo al petrolio presente nel sottosuolo, concentrato soprattutto in Basilicata, il totale delle riserve certe nel nostro Paese verrebbe consumato in appena 13 mesi".

Eppure il ministro Passera pochi mesi fa aveva detto che dalle nostre "ingenti" riserve di gas e petrolio "si possono generare 15 miliardi di euro di investimenti e 25mila posti di lavoro, si può ridurre la bolletta per importazioni di energia di 6 miliardi, aumentando il Pil di mezzo punto". Secondo il Comitato scientifico di Aspo-Italia "quelle di Passera sono stime basate sulla carta e non sulla realtà fisica che ci circonda".

Gli enti e le associazioni ambientaliste sottolineano infatti come a guadagnarci non sarebbe certo la nostra economia ma le compagnie, quasi tutte straniere, che investono a rischio zero sul nostro petrolio (che tra l'altro sarebbe pure di scarsa qualità). L'Italia, infatti, è sempre stata una sorta di "paradiso fiscale" per i petrolieri che, estraendo gli idrocarburi in quantità al di sotto dei limiti previsti, raramente pagano le aliquote (o royalty) allo Stato. E anche quando le pagano, sono comunque tra le più basse al mondo. Ecco perchè l'intenzione del governo di aumentarle dal 7 al 10% è parsa a molti al limite del ridicolo, dato che nei Paesi avanzati si applicano royalty che vanno dal 20% all'80% del valore degli idrocarburi estratti.

Secondo i dati raccolti dal giornalista Pietro Dommarco nel suo libro "Trivelle d'Italia" (che ha dato il titolo anche a un recente incontro delle associazioni ambientaliste svoltosi in Senato a Roma), il nostro Paese è oggi posizionato al quarto posto in Europa per produzione petrolifera. La Basilicata è la regione più sfruttata, seguita dalla Sicilia. "Proprio sul Canale di Sicilia l'Ispra ha condotto un'indagine, finanziata da noi e non dallo Stato - racconta il direttore delle campagne Greenpeace Italia Alessandro Giannì - in due giorni di immersioni abbiamo filmato ben 93 specie diverse, comprese tutte e 4 le specie di corallo nero presenti nel Mediterraneo". In quell'area la Edison, gestore della piattaforma Vega A al largo di Pozzallo, ha fatto richiesta per realizzare un nuovo impianto, la Vega B, nella stessa concessione. Eppure già per la prima piattaforma c'è un processo in corso per inquinamento. "Perchè per la Vega B non dovrebbe essere uguale?" si chiede Giannì - oltre al fatto che le ripercussioni di un eventuale incidente in tratti di mare chiusi come i nostri sarebbero gravissime".

La parola passa ora alla Commissione Ambiente del Senato, che sta cercando di far passare un disegno di legge contro l'articolo 35, e naturalmente agli enti locali, che dovrebbero avere voce in capitolo su scelte di questo tipo. L'appello di Greenpeace contro le trivellazioni off-shore nel Canale di Sicilia, ad esempio, ha raccolto l'adesione di una cinquantina di sindaci di ogni colore politico (da segnalare, però, il fatto che proprio il Comune di Pozzallo ha di recente ritirato la propria adesione) e anche le cooperative dei pescatori si stanno attivando. Tra le regioni, la Puglia si era opposta alle trivellazioni al largo della costa vicino alle Isole Tremiti, ed il TAR Lazio le ha dato ragione. Ma la battaglia è ancora lunga e i sogni di petrolio del governo, che ha tagliato gli incentivi sulle rinnovabili, sono duri a morire.

"Eppure tra il 2000 e il 2010 la dipendenza dell'Italia dal petrolio per la produzione di energia elettrica è passata dal 30% al 3%, mentre è in crescita il ricorso alle energie rinnovabili - commenta Giorgio Zampetti, responsabile scientifico Legambiente - Certo, c'è ancora la questione dei trasporti su cui lavorare. Ma secondo noi i tempi sono maturi per fare il salto di qualità".

Anna Toro

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