Luigi Piccioni, Università della Calabria

Franco Pedrotti è al tempo stesso uno dei grandi nomi della botanica internazionale e il decano dell'ambientalismo italiano, avendo iniziato il suo percorso di protezionista già alla fine degli anni Quaranta. Nel corso di sessant'anni di attività Pedrotti ha sempre cercato di fondere armonicamente e dinamicamente attività scientifica e impegno civico con risultati di un'ampiezza che ha pochi o nessun paragone nel nostro Paese. Basta citare appena quattro tra le sue molte realizzazioni per comprendere il senso e la portata di questa unità profonda di scienza e impegno: la riserva naturale di Torricchio, il convegno di Camerino del 1980 che lanciò la "sfida del 10%" per le aree protette italiane, la scuola di specializzazione sulle aree protette presso l'Università di Camerino, la gran messe di libri e articoli di storia dell'ambientalismo pubblicati nell'ultimo quarto di secolo. Dopo aver creato, ormai trent'anni fa, una ricca collana del Dipartimento di Botanica dell'Università di Camerino intitolata "L'uomo e la natura" che conta ormai più di cinquanta volumi, nel 2005 Pedrotti ha avviato una seconda collana presso la casa editrice Temi di Trento dedicata a "Natura e aree protette".

In "Natura e aree protette", collana di taglio più divulgativo rispetto a "L'uomo e la natura", è uscito in questi giorni un libro molto particolare, a partire dal quale vorrei fare qualche considerazione da condividere con le lettrici e i lettori di "Greenreport".

Il libro si intitola Soplicowo. L'uomo in sintonia con la natura ed è - ripeto - un oggetto molto strano. Come molte delle opere curate da Pedrotti esso è composto da parti piuttosto diverse tra loro, che solitamente non vengono fatte convivere: un saggio storico sulla protezione della natura, un saggio di storia letteraria e culturale, un saggio scientifico su un'area di grande valore naturalistico - la celebre foresta polacca di Bialowieza, ultimo rifugio del bisonte europeo - alcune testimonianze sospese tra memoria personale e riflessione scientifica, morale e culturale in senso ampio, una sezione di fotografie. Ma ciò che però colpisce di più è il collante che tiene insieme in un unico progetto tutte queste membra sparse, cioè il riferimento a un luogo immaginario, cuore di un poema nazionale scritto da un uomo esiliato da anni, che è al tempo stesso un luogo dell'anima e un luogo della natura. Soplicowo, appunto: la proprietà immaginaria del Pan Tadeusz, cioè del signor Tadeusz, ideata da Adam Mickiewicz negli anni Trenta dell'Ottocento.

Soplicowo è nella mente di Mickiewicz come in quella di Pedrotti una mirabile combinazione di umano e di naturale ma è soprattutto una fondamentale fonte di ispirazione morale e sentimentale. Il fondamento di un sentimento nazionale, di un'idea romantica di nazione in Mickiewicz, e di un'idea di rapporto armonico tra uomo e ambiente in Pedrotti come in tanti altri naturalisti e ambientalisti anzitutto polacchi. Per Mickiewicz come per Pedrotti il riferimento, per quanto immaginario, non è a una natura astratta, idealizzata, ma a luoghi vissuti, a ambienti precisi, in cui per ciascuno ha avuto modo di realizzarsi il miracolo della fusione tra conoscenza razionale, ispirazione morale e appello della bellezza. Per questo Pedrotti, oltre a portare la sua testimonianza personale, ha chiesto ad alcune tra le molte - e molto diverse - persone che hanno collaborato con lui nel tempo di riflettere sulla loro, sulle loro Soplicowo. Sui luoghi cioè che nella loro anima hanno realizzato in un dato momento o nel corso della loro vita la sublimazione di quell'incontro tra conoscenza, morale e bellezza.

E' un libro strano, ripeto ancora una volta, Soplicowo. Non è un capolavoro, può apparire eccessivamente eterogeneo, può dare l'impressione di un'operazione eccessivamente intima, nobilmente provinciale ma pur sempre provinciale. E probabilmente è anche così.

Ma io credo che esso abbia il grande merito di costringerci a riandare ad alcune dimensioni preziose del nostro modo di considerare la natura e il nostro stesso ambientalismo - perché io credo che non possa esistere coerente ambientalismo senza un modo forte di vedere la natura, quale che esso sia. Ci pensavo proprio in questi giorni, riflettendo in modo anche un po' superficiale ed emotivo, a cose che venivo leggendo su "Greenreport" o che discutevo a San Rossore nell'incontro nazionale sui parchi di settembre.

Due cose che mi colpivano molto erano il crescente successo dell'espressione "green economy" e l'egemonia ormai conquistata nel discorso pubblico dal termine "biodiversità" rispetto a "natura" o addirittura ad "ambiente".

La "green economy" può essere intesa - lo sappiamo bene - in molti modi, ma l'interpretazione prevalente mi pare sia quella di un'attività economica "riconvertita", un concetto in cui l'accento batte molto di più sull'attività economica, sulle sue virtù competitive, sulla sua reale efficacia in termini di generazione di profitto, che non sulla complessità, materiale e immateriale, degli aspetti ambientali. Un'interpretazione, insomma, prevalentemente economicistica, che finisce con lo schiacciare tutte le altre dimensioni. Così può succedere, come ha fatto recentemente notare Elio Tompietrini proprio su queste pagine, che paradossalmente ci si riempia sempre più la bocca di "green economy" nel momento stesso in cui le aree protette italiane vengono condannate di fatto alla scomparsa senza praticamente muovere un dito. In questo senso il - pur promettente - concetto di "green economy" finisce col perdere in molti casi qualsiasi carica culturalmente o socialmente sovversiva, al punto da poter essere incorporato senza difficoltà nella retorica di un capitalismo che resta indifferente se non ostile all'ambiente e alle idee dell'ambientalismo. Esattamente come è avvenuto in troppi casi con un altro concetto di enorme successo: quello di "sviluppo sostenibile". Con "green economy" siamo insomma in un campo che è diventato scivoloso, ambiguo, uno di quei campi in cui il gioco che si fa con le parole può portare ad esiti molto diversi, persino opposti. E in cui vince non chi ha più ragione, ma chi ha più forza.

Non è la stessa cosa con il termine "biodiversità", più specifico, più netto, meno appropriabile. Eppure mi pare di vedere anche qui un restringimento, un impoverimento dei contenuti, delle potenzialità rispetto ad altri termini. Quando mi sono avvicinato all'ambientalismo, ormai quaranta e più anni fa, di biodiversità non si parlava affatto. Si parlava di natura, di ecologia, al massimo - e in modo molto limitato - di ecosistemi. Neanche le parole "ambiente" e "ambientalismo" erano molto usate. Biodiversità è un termine scientifico, estremamente tecnico, che si è affermato solo negli ultimi venti-venticinque anni, con contenuti ben precisi e con riferimento specifico a una caratteristica squisitamente quantitativa degli ambienti naturali. Che uno strumento concettuale di questo tipo possa essere prezioso come indicatore del grado di integrità di un ambiente e che quindi possa alludere efficacemente ai fini della tutela ambientale è innegabile. Ma che il discorso ambientalista o più in generale il discorso sul rapporto uomo-ambiente debba utilizzare un termine di questo genere come termine chiave, destinato ad avere valore di gande richiamo, credo che sia il sintomo di un impoverimento pericoloso. Allo stesso modo di "green economy" credo che "biodiversità" schiacci la ricchezza delle implicazioni del discorso ambientalista su una sola delle sue dimensioni, e tra le più povere. E mi sorprende ogni giorno di più come associazioni non inesperte né miopi come il Wwf, che pure operano riuscendo anzitutto a far leva su sentimenti profondi come la fascinazione e l'amore per la natura selvaggia, si riducano sempre di più a un discorso pubblico centrato su un termine povero e poco evocativo come quello di biodiversità (vi immaginate l'effetto se il titolo del classico di Henry David Thoreau non fosse Vita nei boschi bensì Vita nella biodiversità?).

Soplicowo, per tornare al tema centrale di questo articolo e per concludere, ci richiama utilmente a questa ricchezza di implicazioni, che i termini "natura" e "ambiente", ma in fondo anche un termine pur tecnico come "ecologia", continuano a conservare. Implicazioni che trascendono la dimensione scientifica, della pura misurabilità, della pura performatività, e implicano invece un coinvolgimento più diretto e consapevole della memoria - individuale e collettiva, delle emozioni e dei sentimenti soprattutto estetici e del senso morale, cioè della domanda sul senso e le finalità dell'esistenza, anche in questo caso sia individuale che collettiva. Ma in questo senso Soplicowo costituisce un'opera ancora minoritaria nella letteratura italiana sull'ambiente, in cui pochissimi e di scarso successo sono stati i libri che hanno cercato di seguire le orme dei classici dell'immersione nella natura come quelli realizzati da Henry David Thoreau, da Aldo Leopold o a suo modo anche da Rachel Carson.

Ma è di qui - credo - che bisogna provare a passare se non vogliamo che un discorso puramente tecnico (economico o biologico non ha importanza) inghiotta tutta la discussione sul rapporto, sul difficile e complesso rapporto, tra noi e la natura.

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