Gabriele Catania

ll presente, nella città deindustrializzate d'America, ricorda i futuri postapocalittici alla Philip Dick. Eppure in queste città, sempre più povere, non tutto è perduto. Sboccia un'economia del riuso. Ma «nei crateri dello sviluppo torna a fiorire l'utopia», spiega Alessandro Coppola, studioso di fenomeni urbani.

Il presente, nella città deindustrializzate d'America, a tratti ricorda i futuri post-apocalittici immaginati da Philip Dick. Fabbriche diroccate. Orti urbani. Strade vuote e silenziose. Case abbandonate, sventrate per il rame o altro materiale di valore. Macerie. La natura selvaggia alla riscossa. Grattacieli art déco in downtown senza vita. Penuria di cibi freschi. Gang sempre più minacciose. Chiese che diventano gli ultimi punti di aggregazione in quartieri spopolati. Il ritorno del baratto. La nascita di nuovi stili di vita.

Sembra un Medioevo futuristico. E invece è quanto sta accadendo in città del Midwest e del Nordest statunitensi come Cleveland.

Detroit. Flint. Youngstown. Buffalo. Un tempo fucine di benessere e speranze, oggi queste ex capitali industriali della Rust Belt vivono un'agonia economica, sociale e demografica di proporzioni colossali. A raccontare tutto ciò, nel fortunato saggio Apocalypse Town: Cronache dalla fine della civiltà urbana (Laterza), è Alessandro Coppola, studioso di fenomeni urbani. Milanese, 33 anni, Coppola descrive territori post-urbanizzati dove «le condizioni di vita di popolazioni discriminate, impoverite e marginalizzate» sono state spinte al limite: «Nei deserti urbani della Rust Belt, curarsi e fare la spesa, studiare e spostarsi, lavorare e andare al cinema è diventato incredibilmente difficile, talvolta impossibile».

Eppure in queste città, sempre più periferiche e povere, non tutto è perduto.

Fioriscono gli orti urbani. Sboccia un'economia della decostruzione e del riuso. Si impara a gestire in modo intelligente il declino (il cosiddetto smart shrinkage). La gente riscopre l'importanza della fede, della solidarietà e dei legami umani. I giovani riconquistano spazi che altrove il mercato immobiliare gli nega. La democrazia diventa più partecipativa e innovativa. Si immaginano nuove concezioni di urbanità: dalla "città arcipelago" ecologica, dove le tecnologie verdi giocano un ruolo cruciale, alla "città rarefatta", sorta di rincarnazione postmoderna della Broadacre City dell'architetto Frank Lloyd Wright. «Nei crateri dello sviluppo torna a fiorire l'utopia: visioni del futuro spesso ingenue e irrealistiche, ma che in territori espulsi dalla corrente principale della storia vengono a rappresentare forze potenti di trasformazione delle società locali [?] Se molto del pensiero utopico del diciannovesimo e del ventesimo secolo voleva edificare nuove città abbandonando le vecchie, nella Rust Belt l'utopia si sperimenta proprio fra le rovine di queste ultime», scrive Coppola nel suo libro. Linkiesta lo ha intervistato a riguardo.

Dottor Coppola, l'odierna Rust Belt, la "cintura della ruggine", un tempo era sede di alcune tra le maggiori aziende del pianeta: General Motors, Ford, National Steel Corporation? Era una regione prospera, il vero motore industriale d'America. Poi il declino. Che cosa è successo?

Tra le cause strutturali che hanno determinato il declino di queste città, una ha natura economica. Queste città erano spesso monoculture industriali; in alcuni casi erano addirittura delle company town, un po' come la nostra Torino: città, cioè, organizzate non solo attorno a un unico settore, ma a un'unica grande impresa. L'America si è poi progressivamente deindustrializzata: queste grandi città industriali sono state, in una certa misura, le vittime di tale deindustrializzazione. Ma al di là della crisi dell'economia industriale, alcune delle cause del declino di città come Cleveland o Detroit hanno a che fare con l'evoluzione della struttura urbana degli Stati Uniti. Nel libro racconto di un "doppio movimento" di cui sono state vittime le vecchie città industriali. Da una parte, dagli anni Cinquanta in poi si verificò un grande riequilibrio della popolazione dall'attuale Rust Belt alla Sun Belt [la grande "cintura del sole" che va dalla California alla Florida, ndr]. Accadde cioè quello che non è accaduto da noi: le regioni e le città forti d'America, che si trovavano nel Nordest e nel Midwest, iniziarono a cedere popolazione alle regioni e alle città deboli, cioè il Sud e l'Ovest. Dall'altra parte, con la suburbanizzazione di massa, le città della Rust Belt hanno ceduto popolazione e attività economiche ai loro suburbi, impoverendosi e spopolandosi.

Lei si riferisce alle sterminate periferie d'America: i suburbs appunto, i quartieri di villette monofamiliari che tutti abbiamo visto nei film di Hollywood. Già negli anni Settanta gli Stati Uniti erano una nazione suburbanizzata.

Si tratta di un fenomeno che ha cambiato tutte le città americane, ma soprattutto le città storiche, quelle del Nordest e del Midwest. Le popolazioni sono state spinte dalle inner city [le aree urbane centrali, ndr], alle aree suburbane. Le inner city del Nordest e del Midwest, dunque, sono le vittime assolute di questo doppio movimento. Non solo hanno perso la gara con le città del sud e dell'ovest, che sono cresciute mentre queste cessavano di crescere e anzi declinavano, ma in più hanno anche perso la gara con il loro stesso suburbio. Le inner city e la Rust Belt sono i ground zero di un intero modello di sviluppo. Sono i territori che hanno ceduto di più in termini di capitali, di popolazioni, di opportunità.

Un solo esempio: Youngstown, la "città dell'acciaio" che negli anni Trenta sfiorava i 170mila abitanti, oggi ha circa 66mila anime, ed è il simbolo della crisi di uno stato, l'Ohio, per decenni ricco e influente.

Di recente ho visto un servizio televisivo su Gary, una città deindustrializzata dell'Indiana che è divenuta meta del turismo del declino urbano e della distruzione. Youngstown è ai livelli di Gary, anche lì si potrebbero organizzare dei tour. È una città ormai compiutamente deindustrializzata, e che ha perso più della metà della sua popolazione nell'arco di pochi decenni. Lo spopolamento è stato causato sia dal violento declino economico dell'intera regione, sia dal trasferimento della classe operaia bianca nei suburbi. Youngstown è un po' il fantasma di quello che era un tempo, e riunisce in sé tutti i problemi, ma anche tutte le opportunità, di queste città: un mercato immobiliare che non esiste più, moltissimi edifici abbandonati, tantissimi suoli restituiti alla natura.

È interessante scoprire che nelle città della Rust Belt la natura sta riconquistando spazi che per decenni gli abitanti le avevano negato.

In queste città sono tantissimi i suoli abbandonati. Con il crollo della popolazione sono stati avviati ampi programmi di demolizione degli immobili abbandonati, che avevano effetti depressivi su un mercato già molto depresso. È paradossale, ma molte di queste città hanno usato parte dei fondi del cosiddetto stimulus package (le misure antirecessive varate dall'amministrazione Obama nel 2009, ndr) per demolire case. In questa condizione si produce una profonda rivisitazione del rapporto tra urbanità (o meglio, una post-urbanità) e natura. Uomo e natura selvaggia. Uomo e natura produttiva. Ci sono degli studi secondo i quali la biodiversità, nei territori urbani deindustrializzati della Germania est, è molto forte. In queste città della Rust Belt la natura è egualmente potente. Non è raro, passeggiando fra le strade abbandonate, incrociare qualche animale selvatico.

Nel suo libro lei scrive che nelle città agonizzanti della Rust Belt "sono oggi in molti a credere che il trovarsi ai margini dei grandi flussi dell'economia e delle culture globali non sia più il problema da risolvere, ma la grande occasione da non sprecare".

Queste città presentano condizioni eccezionali. Meglio: sono, in qualche misura, degli spazi di eccezione, citando un noto filosofo. E sono degli spazi di eccezione nella misura in cui molte delle qualità che noi associamo all'esperienza ordinaria dell'urbanità, sono andate perdute: ad esempio manca un'organizzazione sociale articolata, una forte rete distributiva, un uso intensivo dei suoli? Le città della Rust Belt sono spazi d'eccezione perché tutte queste caratteristiche sono venute meno. I suoli sono in eccesso: con la perdita di popolazione sono andati avanti i programmi di demolizione, quindi molti suoli sono stati restituiti alla natura o a usi che potremmo considerare eterodossi in una situazione urbana. Molti immobili sono abbandonati o fuori mercato, perché queste sono città con un mercato immobiliare debolissimo, in cui è possibile acquistare una casa per poche migliaia di dollari. Una situazione eccezionale, se pensiamo all'esperienza che abbiamo noi delle nostre città, dove c'è il gravissimo problema dell'accessibilità del mercato immobiliare, sebbene ora sia stato parzialmente attenuato dalla crisi del mercato immobiliare.

E infatti nelle città della Rust Belt capita che le case siano vendute e comprate a prezzi bassissimi su Ebay... Un mercato immobiliare così depresso ha però anche dei vantaggi.

Le case a bassissimo prezzo, oltre a popolazioni mobili e "irregolari", possono attirare anche a persone con uno stile di vita diverso, creativi (o sedicenti tali) che non hanno un dollaro in tasca, ma hanno bisogno di un immobile per i loro progetti.

Nel suo libro lei evidenzia quanto sia importante per la vitalità delle città della Rust Belt la presenza attiva delle chiese. Sembrano fortini spirituali in un deserto di rovine.

Per capire quello che è successo in queste città, uno si deve immaginare il crollo verticale delle forme più elementari di organizzazione sociale. Prendiamo il caso di Youngstown. Lì la deindustrializzazione ha portato al crollo delle forme di organizzazione sociale tipiche della vita operaia, quali circoli, sindacati, associazioni. E con il crollo della popolazione c'è stato il crollo delle reti distributive. Youngstown è un posto dove è difficile acquistare anche beni di prima necessità, è un cosiddetto food desert. L'assessore all'urbanistica mi ha raccontato che a Youngstown, città di quasi 70mila abitanti, non si può comprare un televisore, bisogna andarlo a comprare in un suburbio. A Youngstown c'è stato poi il crollo delle forme politiche organizzate. In America è soprattutto la classe media a fare politica, anche a livello urbano, e quando questa se ne va si restringono anche le forme territoriali di organizzazione politica. In altre parole, si tratta di una società che si assottiglia, e si ritrova a resistere organizzandosi intorno alle poche cose che rimangono. E in effetti quest'immagine della chiesa che si erge solitaria nel deserto urbano di Youngstown è abbastanza realistica, perché spesso le chiese restano nelle città, e i fedeli che si sono trasferiti nel suburbio la domenica vanno in centro per la messa.

È interessante la storia della chiesa di padre Noga, a Youngstown. Grazie all'impegno di quel prete tenace e dei suoi parrocchiani, sono stati creati 25 orti urbani, dove si coltivano lattuga, fagioli, patate, insalata? E non si tratta di un caso isolato: sempre a Youngstown, lei racconta, le comunità religiose provvedono alla demolizione degli edifici, per evitare che cadano nelle mani dei criminali.

Queste chiese, in effetti, continuano a preservare un po' di vitalità nelle città della Rust Belt. D'altra parte negli Stati Uniti le comunità religiose non sono tutte conservatrici. Ce ne sono anche di orientamento progressista. Quella di padre Noga è una microstoria che si ripete in tanti casi: una comunità religiosa che cerca di far fronte all'abbandono che cresce intorno a sé, anche per preservare il proprio ruolo. Padre Noga non vuole, ovviamente, che la sua chiesa affondi nel degrado e perda altri fedeli, né che la città declini ancora. Questa capacità di resistenza determina effetti virtuosi sul contesto. In effetti è vero: se in quel pezzetto di Youngstown padre Noga non ci fosse, l'abbandono sarebbe ancora più accentuato.

Interessante anche il caso di Buffalo, nello stato di New York. Si tratta di una città in crisi, con molte case e lotti abbandonati, ma è anche una gemma dell'architettura americana. Famosa la sua gigantesca City Hall art déco, e soprattutto ciò che l'architetto Frank Lloyd Wright ha realizzato: il Martin House Complex, per esempio, ha sede lì. Ora Buffalo si sta trasformando in una delle capitali americane della decostruzione. Cosa si intende con decostruzione?

A Buffalo è in corso un progetto molto interessante, che parte da due riflessioni. La prima è che stare in una condizione di relativa marginalità economica e territoriale è un'opportunità per essere creativi, anche in rapporto ad alcune questioni che l'umanità deve affrontare, a partire dalla crisi ambientale. La seconda è che le macerie non devono essere intese solo negativamente. L'organizzazione no-profit Buffalo ReUse è un ottimo esempio di questa visione. I suoi membri sono sì convinti (come l'amministrazione comunale e molti dei residenti) che gli immobili in eccesso vadano demoliti, perché la popolazione di Buffalo si è ristretta. Tuttavia pensano anche che la liquidazione degli immobili in eccesso non debba necessariamente produrre solo scarti, e che si debba preservare la ricchezza incorporata nel patrimonio edilizio della città. La decostruzione, e le sue tecniche alternative alla demolizione tradizionale, serve a salvare una parte di questo patrimonio e a reimmetterlo virtuosamente nel mercato locale.

Secondo quanto lei scrive nel libro, il fondatore di Buffalo ReUse, Michael Gainer, vede la città come un immenso giacimento di materiale riciclabile. A detta di Gainer, mentre la demolizione tradizionale di una casa manda in discarica 120 tonnellate di materiali, la sua organizzazione ne manda 60 o 70. Un bel passo avanti, pure per l'ambiente...

Questa è una pratica che parla molto di sostenibilità ambientale, perché tende al riutilizzo locale di risorse locali in un mercato locale, riducendo allo stesso tempo la quantità di materiali che finiscono in discarica e favorisce il riciclo. Parla però anche di capacità artigianali, e di un'idea diversa del lavoro e della sua organizzazione. Buffalo ReUse è una storia pionieristica, di media scala, ma qualitativamente importante. È nata in una città dove c'è molto da demolire, il mercato immobiliare è in crisi, e si è cercato di affrontare il problema collettivo degli immobili in eccesso in modo innovativo.

Un'altra città in crisi è Baltimore. Famosa per alcuni tesori architettonici come l'One Charles Center di Ludwig Mies van der Rohe, Baltimore ha cercato di trasformarsi in una festival city, e in parte ci è riuscita. Eppure resta una "città duale", schizofrenica: da un lato l'Inner Harbor, che attrae milioni di turisti, dall'altro i ghetti, che un telefilm come The Wire, ambientato proprio a Baltimore, ha saputo ben descrivere.

Di recente è morto Renato Nicolini. La sua Estate Romana ha rappresentato un modo nuovo di concepire l'urbanità, il rapporto fra la cultura, il suo "consumo" e lo spazio urbano. Era una risposta, una strategia potremmo dire low-cost, a una serie di mancanze strutturali di una città divisa e diseguale come la Roma degli anni Settanta, peraltro nel clima difficile degli Anni di piombo. A Baltimore, una città in forte declino e con gravi problemi di criminalità e di violenza politica (in questo caso relativi soprattutto ai conflitti razziali), negli stessi anni si pensava in fondo a qualcosa di simile. L'idea del sindaco di Baltimore, da cui avrebbe poi imparato anche il sindaco di Barcellona Pasqual Maragall, era far riscoprire la città, trasformandola in una Festival City "giocosa" e ammiccante.
Baltimore ha seguito questa visione in modo molto coerente, cercando di diventare una città turistica. Nonostante la città sia ancora in declino, si può dire che questa strategia abbia avuto successo, in una certa misura. Ma i costi sociali sono stati enormi. Moltissimi capitali pubblici sono stati investiti nella rivitalizzazione del fronte mare. Nonostante questo, anzi in una certa misura in virtù di questo, Baltimore rimane una città duale, divisa fra un'area di downtown pienamente rivitalizzata e molti quartieri residenziali impoveriti e abbandonati. David Harvey ha scritto cose illuminanti a riguardo.

Nelle città in crisi della Rust Belt si invoca spesso lo smart shrinkage. Che cos'è?

L'idea di smart shrinkage è l'idea di un cambiamento abbastanza radicale nel modo di guardare il declino di queste città. Per anni nella Rust Belt si è voluto contrastare il declino, e contrastare il declino significava, per esempio, darsi l'obiettivo di riacquisire popolazione, capitali, attività economiche. Poi i più avvertiti si sono resi conto che nonostante tutte le politiche varate, queste città si trovavano in una condizione di declino strutturale, in qualche misura inarrestabile e non invertibile. Così è cambiato lo sguardo che si rivolgeva al territorio, in gran parte abbandonato, di queste città. Si è capito che bisogna fare i conti con esso, partendo dal presupposto che non ci sarà un ritorno alla crescita, quantomeno nel medio periodo, e che quindi molta dell'enfasi va spostata dall'obiettivo di attrarre nuove persone e capitali a quello di riorganizzare e gestire questo territorio, facendolo anche pesare meno sui bilanci delle amministrazioni comunali. I servizi in queste città hanno, infatti, elevati costi pro-capite: la popolazione si è ridotta ma non l'estensione della città. Mi limito a un esempio banale: soprattutto nel contesto di un federalismo molto egoista come quello americano, una città di 70mila abitanti non può permettersi di asfaltare la maglia stradale realizzata quando di abitanti ne aveva 150mila. Questo significa anche la possibilità di abbandonare integralmente quartieri e aree sottopopolate perché troppo "costose" da mantenere in vita. Lo smart shrinkage, quindi, è una sorta di gestione abile, virtuosa del declino. Il punto è creare le condizioni per dare nuova forma a questo territorio, accettare che non sarà più densamente urbanizzato (almeno, non in tempi brevi) e riconsegnarlo in modo ordinato alla natura e a nuovi usi.

In America le città della Rust Belt sono viste come la Nuova Frontiera, luoghi "selvaggi" dove si possono sperimentare soluzioni e stili di vita pionieristici.

La retorica della nuova frontiera è da sempre molto presente negli Stati Uniti. Pensiamo solo alla colonizzazione del West o, su un piano più espressamente simbolico, alla New Frontier di Kennedy. Oggi qualcuno impiega questa retorica per i territori della Rust Belt. È un po' paradossale, perché questi territori sono quelli dell'urbanizzazione più antica: il Nordest soprattutto, ma anche il Midwest. Come ho detto prima, questi territori sono spazi d'eccezione. L'accessibilità al mercato immobiliare, per esempio, è tale che sembrano posti ricolonizzabili. I giovani che rimangono a Youngstown sanno che in città non ci sono cinema o supermercati, però sanno anche che i prezzi degli immobili sono molto bassi, ed è possibile comprare una bellissima casa per poche migliaia di dollari, e avviare progetti competitivi. E in effetti la città è riuscita ad attrarre qualche impresa innovativa, c'è un incubatore, lo Youngstown Business Incubator. Le città della Rust Belt sono la nuova frontiera anche perché alcune visioni "radicali" del nostro futuro possono radicarsi lì più facilmente, come nel caso della rilocalizzazione della produzione agricola. In molte di queste città, grazie ai tanti suoli in eccesso, si sono sviluppati molti progetti agricoli: non si tratta di numeri enormi, ma fanno la differenza. Sempre queste città sembrano essere la scena ideale per figure pionieristiche come i Maker, i nuovi artigiani tecnologici di cui in Italia ha parlato Stefano Micelli nel suo libro "Futuro artigiano".

Sembra che nella Rust Belt si stiano affermando due modelli di gestione del declino. In alcune città si punta sul concetto di neo-suburbanizzazione, che ricorda la visione di Frank Lloyd Right della Broadacre City, il suburbio utopico dove ogni famiglia ha il suo acro di terra. A Detroit, invece, si fa strada il concetto di città-arcipelago?

Tutto nasce da una domanda cui le città della Rust Belt devono rispondere: quando si ha un territorio in parte abbandonato e rinaturalizzato, qual è la migliore strategia urbanistica? Da una parte si può puntare su una sorta di neo-suburbanizzazione: singoli cittadini assemblano i terreni abbandonati e la città si trasforma in un grande suburbio, sebbene di tipo nuovo. Dall'altra si punta invece a riorganizzare la forma urbana, redistribuendo la popolazione residua in una struttura urbana profondamente rivisitata. È la città-arcipelago elaborata negli anni Settanta dall'architetto Oswald Ungers per Berlino, e oggi ipotizzata per il futuro di Detroit, con un centro che mantiene le sue funzioni e poi una serie di nuclei urbani più o meno densamente popolati, circondati da terreni restituiti alla natura e all'agricoltura urbana. La prima idea lascia spazio alle forze sociali e di mercato, la seconda implica un intervento importante della pubblica amministrazione?

Quali sono gli insegnamenti urbanistici e imprenditoriali delle città della Rust Belt applicabili anche in Italia?

Tengo a sottolineare che fortunatamente si tratta di contesti molto diversi, un paragone è davvero arrischiato se non improprio. Ci sono però alcune situazioni che alla lontana potrebbero essere interessanti anche per noi. Ad esempio, noi italiani viviamo in città con mercati immobiliari relativamente forti, nonostante la crisi, e non ci rendiamo conto che mercati così rappresentino un serio ostacolo, in molti casi, alla capacità delle città di realizzare progetti imprenditoriali innovativi e di creatività sociale. Un mercato immobiliare forte non ha, infatti, solo aspetti positivi. Di recente ho letto del caso di tre giovani neo-diplomati di Milano che vorrebbero aprire una piccola impresa di servizi grafici nel quartiere di Gratosoglio, un grande complesso di edilizia pubblica molto periferico. Ma questo gli sarà impossibile perché l'Aler, che è l'ente di edilizia pubblica proprietario dei tanti spazi commerciali e di servizio abbandonati, chiede loro un affitto di oltre 2000 euro! Si tratta di un caso paradossale: infatti Gratosoglio - per quanto riguarda gli spazi commerciali - non ha un mercato forte quanto altre aree della città, anzi di fatto praticamente non esiste. Ora sembra che il Comune se ne stia occupando?In altre parole, le città della Rust Belt ci insegnano, ad esempio, che un po' di declino può favorire lo sviluppo di progetti innovativi. Se il declino non c'è, credo sia funzionale allo sviluppo tenere un po' di immobili fuori dal mercato, utilizzandoli a quei fini. Ecco perché trovo molto preoccupante che in Italia, a causa dell'austerity, si stia affermando quest'idea, folle, che toglie speranze alle nuove generazioni, di dismettere parti consistenti di patrimonio pubblico - peraltro in condizioni sfavorevoli - che invece potrebbero essere usate per lo sviluppo, se soltanto fossero destinate a progetti di occupazione giovanile e impresa sociale? L'idea delle dismissioni è una grande stupidaggine, ha un senso ora ma non a lungo termine: così facendo priveremo il nostro Paese di opportunità di sviluppo.

(con la collaborazione di Angela Robusti)

Leggi il resto: http://www.linkiesta.it/cintura-ruggine-america-citta-coppola#ixzz2A1jJhFD1

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