Asher Colombo, docente di sociologia all'Università di Bologna, si occupa da anni di immigrazione con numerose pubblicazioni all'attivo. Il suo ultimo volume Fuori controllo? Miti e realtà dell'immigrazione in Italia, (Il Mulino, pp. 208, 16 ero)  affronta il tema con estremo pragmatismo e raffrontando spesso la situazione del nostro Paese con quanto avviene nel resto d'Europa, le problematiche relative alla cosiddetta immigrazione irregolare. A lui chiediamo una valutazione rispetto all'ultimo provvedimento di sanatoria/regolarizzazione che ha visto emergere circa 136 mila lavoratori assunti in nero. Meno del previsto.

«Sulle sanatorie va fatto un ragionamento complesso in cui sono molti gli aspetti da criticare. Si tratta di provvedimenti che si sforzano  di sanare un buco ma nel frattempo manca la volontà o c'è l'incapacità di attuare politiche attive in materia di lavoro. Si affrontano a posteriori situazioni che potevano essere risolte a monte. Nel merito va però anche detto che, con tutti i limiti, si tratta di provvedimenti che sono riusciti quasi a prosciugare la reale irregolarità. Gran parte dei presenti oggi regolari, hanno trascorso spesso lunghi periodi di irregolarità. Si tratta di uno schema che ha tenuto fino a poco tempo fa. Non ho ancora gli strumenti sufficienti per valutare appieno i risultati delle ultime sanatorie e non so dire se il numero delle domande presentate è realmente così basso. Si parte da un assunto indimostrabile, quello per cui la popolazione irregolare è molto più alta, che arriva ad almeno 500 mila persone. Chiaro che se questi dati sono veri 136 mila domande sono poche. Io però ho dubbi sulla solidità delle stime e i miei dubbi partono da valutazioni a livello europeo in cui è contemplata anche l'Italia. L'immigrazione verso l'Europa si va riducendo, anche verso l'Italia. Ci sono paesi di emigrazione che vivono una fase di trasformazione, come alcuni di quelli dell'Europa orientale. Poi facciamo i conti col fatto  che  non esistono due flussi diversi di emigrazione, uno regolare e l'altro no. Esistono legislazioni diverse e non armonizzate. Certo  per molti è stato difficile da noi presentare domanda di regolarizzazione anche per gli alti costi e per le procedure, ma  il numero delle domande non è poi così diverso dalla sanatoria del 2009 (colf e badanti), a mio avviso erano sovrastimate le aspettative. Il numero di irregolari è diminuito negli anni per tante ragioni: , 1/5 era negli anni passati costituito da cittadini rumeni oggi comunitari, c'è stato un cambiamento geopolitico importante. Il problema è che da noi mentre si sono attivate forti politiche di controllo che hanno fatto salire il "costo dell'irregolarità" sono mancate politiche attive di "reclutamento" riservate ormai ai soli lavoratori stagionali. Durante il governo di centro destra, lo stesso ministro Tremonti, nel documento di programmazione economica dichiarava di fatto la necessità di almeno 250 mila lavoratori stranieri  l'anno per garantire continuità produttiva».

Pesa comunque la logica privatistica del contratto di soggiorno.

«Si tratta dell'unica riforma rilevante contenuta nella "Bossi Fini" ed ha avuto come effetto negativo immediato una diffusa caduta nell'irregolarità. Ma si tratta di un meccanismo arrivato fuori tempo massimo. Però nel frattempo ha cominciato a diffondersi il permesso europeo a durata illimitata (la carta C.E. per i lungo residenti) quindi, anche il contratto di soggiorno si è rivelato un arma spuntata. L'immigrazione in Europa oggi è costituita per ¼ da cittadini europei e per circa il 60% da lungo soggiornanti. In fondo bisogna ringraziare l'U.E e le sue direttive che hanno fatto modificare il quadro. L'immigrazione di oggi è in gran parte diversa rispetto a 10 anni fa. Ci sono ancora nuovi arrivi ma si tratta soprattutto di ricongiungimenti familiari - nonostante i vincoli restrittivi- e di provvedimenti legati alle sanatorie».

A suo avviso non sarebbe opportuno rivedere anche il sistema delle quote?

«Si tratta di un sistema che ha retto solo fino al 2006. Poi c'è stato un decreto flussi che si è dovuto estendere per molto tempo e quasi per tutti. Oggi c'è chi propone permessi di soggiorno per ricerca occupazione - una ipotesi praticabile ma mai attuata - e decreti per lavoratori stagionali con incentivi a chi sceglie di rinnovarli. Misure che possono produrre solo qualche effetto. Il problema da affrontare a mio avviso è intimamente connesso alla assenza di volontà politica di intervenire strutturalmente sul mercato del lavoro non documentato. In questo campo le quote non possono funzionare, penso ad esempio al settore dei servizi rivolti alle famiglie, in cui molte donne migranti sono impiegate in nero, è difficile pensare ad un controllo capillare degli ingressi e delle uscite».

Siamo in un periodo in cui si chiede ai "tecnici" di gestire la politica. Cosa farebbe e cosa non farebbe  lei, se da ministro dovesse occuparsi di questi temi?

«Una domanda complessa. A mio avviso il versante su cui il sistema politico è più scoperto non è il sistema di controllo ma quello delle politiche di integrazione e di accoglienza. Su alcuni temi la società è più avanti e meno ostile di quanto sia o percepisca la classe politica dal punto di vista di una certa retorica. Penso ad esempio al tema della cittadinanza. Sono state svolte tante indagini campionarie da cui risulta che più della metà degli italiani, secondo alcuni quasi i 2/3, considera giusto che chi nasce e cresce in Italia possa esserne a pieno titolo cittadino. Un discorso analogo può essere fatto rispetto alla libertà di culto. C'è insomma una sovrarappresentazione delle posizioni di ostilità da parte della politica, in realtà in questi anni c'è stato un grande cambiamento, oggi solo 1 italiano su 11 dichiara di non aver mai conosciuto un immigrato, una inversione di proporzioni rispetto a 10 anni fa. E non si tratta solo di incontri casuali o sul posto di lavoro. Molti frequentano i genitori dei compagni di classe dei propri figli. Insomma la società è più avanti. Bisognerebbe poi rielaborare le cosiddette politiche di controllo, le sanatorie non sono una strada di per se sbagliata ma io potenzierei l'elemento innovativo che contiene quest'ultima. La potenzialità che ha lo straniero irregolare di ottenere un permesso se denuncia di lavorare in nero. In prospettiva dovremmo mettere in conto l'idea di far si che chi è irregolare ma ha una occupazione da far emergere possa sempre essere regolarizzato. Quindi non provvedimenti che durano un mese come quest'ultimo. Non ci trovo nulla di scandaloso in simili idee, altrimenti si continueranno a fare provvedimenti ogni 3 anni».

Fra le questioni di cui lei si occupa nel libro in maniera molto problematica, spicca quella dei Centri di identificazione ed espulsione.

«Se allontaniamo lo sguardo dal sistema provinciale italiano e lo guardiamo da Europa ci accorgiamo che sono stati fatti passi avanti. Io sono rimasto colpito dal cambiamento di  opinione sulla direttiva 115 2008 che introduceva elementi innovativi.  Fra i più importanti, l' armonizzazione dei tempi massimi di trattenimento che per noi è stata una maledizione per altri no. Ma la direttiva è applicata in Italia solo in parte in quanto prevede la detenzione come estrema ratio. Va bene, a mio avviso,  porsi come obiettivo la chiusura dei Cie, ma perché non ottenere intanto l'applicazione dell'intera direttiva che contempla numerose forme alternative, compreso il rimpatrio volontario? Perché non considerare l'immigrato come attore del proprio destino e non come un pacco? Credo che questo sia un punto intermedio, riformista e pragmatico che si può praticare. Forme di cessione di sovraordinazione a livello europeo in questo caso sarebbero utili. Anche per l' opinione pubblica sarebbe una buona norma. E comunque ricordo anche che in molti la  chiamarono all'epoca della sua emanazione, "la direttiva della vergogna" perché contiene elementi peggiorativi. In Italia colpì soprattutto il fatto che permetteva di portare a 18 mesi i tempi di trattenimento. Per fortuna poi i tempi reali sono molto più bassi».

Ma non pensa che al di là del giudizio etico e politico, i Cie abbiano fallito anche in termini di efficienza, nel rapporto costi benefici?

«La percentuale dei rimpatriati dai Cie è comunque più alta rispetto a quella che si ottiene con i fogli di rimpatrio o, soprattutto, con l'introduzione del reato di immigrazione clandestina. Ma c'è un elemento di debolezza in termini assoluti che non ha nulla a che fare con le problematiche legate alle condizioni di vita, rispetto dei diritti umani ecc.. su cui c'è una giusta contrapposizione ideologica. I Cie sono diventati peggiori delle carceri perché mentre esiste una legge penitenziaria che regola diritti e doveri, nei centri vige la discrezionalità. Esistono solo regolamenti, spesso non disponibili, scopiazzati da una prefettura all'altra ma difformi. Cambiano le modalità di ingresso di parlamentari e associazioni, la possibilità di utilizzare i cellulari, tutto è insomma variabile. Va bene porsi l'obiettivo di chiudere i centri ma cerchiamo anche di ottenere risultati intermedi».

Quindi come arrivare all'obiettivo finale?

«Intanto arrivando a definire il fatto che tutte le possibilità alternative possano essere esperite. Dalle regolarizzazioni ai rimpatri volontari assistiti, ma per questo bisogna avere strutture e risorse, anche economiche.  Credo che questa debba essere la direzione che deve prendere l'intera U.E. per arrivare ad una chiusura definitiva. Ma c'è anche da affrontare il fatto che molti dati necessari per poter definire politiche di intervento non vengono messi a disposizione, non c'è trasparenza. A noi risulta che oltre la metà di chi finisce nei Cie proviene dai circuiti penitenziari e questo è inaccettabile. Cosa costa effettuare le identificazioni durante la detenzione? I rimpatri o le regolarizzazioni potrebbero avvenire da lì, svuotando di fatto i Cie. Ma c'è uno scarso flusso di informazioni in materia, basterebbe che ministero dell'interno e ministero di grazia e giustizia operassero in comune accordo. Chi ha scontato una pena non deve poi subirne una ulteriore per essere identificato, o deve potersi regolarizzare o deve poter lasciare il Paese. Su tale questione occorrono dati certi e  incontrovertibili».

Stefano Galieni

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