Il Presidente francese: «Il peggio per l'euro è alle spalle, ora serve mettere in moto la crescita».
Sull'asse Parigi-Berlino: consente alla Ue di accelerare, ma la relazione non può essere esclusiva.
In fondo al tunnel della crisi si comincia a vedere la luce. Tanto che forse, dopo l'euro, ci si potrà finalmente occupare dell'Europa. Alla vigilia dell'ennesimo vertice «decisivo» a Bruxelles, François Hollande spiega a sei quotidiani, per la prima volta, la sua visione e i suoi progetti per l'Europa. L'intervista si svolge in un salone dell'Eliseo. Il Presidente della Repubblica francese è rilassato, cordiale e di buon umore. E, soprattutto, molto chiaro.
Signor Presidente, l'Unione europea ha appena ottenuto il Nobel per la Pace, che dà a tutti una responsabilità in più. Come salverete l'euro e l'Europa?
«L'attribuzione del Nobel alla Ue è, insieme, un omaggio al passato e un appello per il futuro. L'omaggio è per i padri fondatori dell'Europa, capaci di fare la pace all'indomani di un massacro. L'appello è per i governanti dell'Europa di oggi, perché siano coscienti che uno scatto è indispensabile. Sull'uscita dalla crisi della zona euro, siamo vicini, molto vicini, perché abbiamo preso le decisioni giuste al vertice del 28 e 29 giugno e le applicheremo il più rapidamente possibile. Prima, regolando definitivamente la situazione della Grecia, che ha fatto tanti sforzi e che deve ormai essere sicura di restare nell'eurozona. Poi, rispondendo alle esigenze dei Paesi che hanno fatto le riforme attese e che devono potersi finanziare a tassi ragionevoli. Infine, realizzando l'unione bancaria. Voglio che queste questioni siano risolte da qui alla fine dell'anno. Allora potremo iniziare a cambiare i nostri sistemi di decisione e approfondire l'unione. Sarà il grande cantiere di inizio 2013».
Appunto: i Paesi che hanno fatto degli sforzi, con sacrifici pesanti per la popolazione, non vedono miglioramenti. Quanto tempo pensa possano resistere?
«Dalla mia elezione ho fatto in modo che l'Europa si dia come priorità la crescita, senza rimettere in discussione la serietà dei bilanci, resa indispensabile dalla crisi del debito pubblico. La mia convinzione è che, se non diamo un nuovo slancio all'economia europea, le misure di disciplina, peraltro auspicabili, non avranno dei risultati pratici. Il ritorno della crescita suppone che si muovano dei finanziamenti su scala europea, ed è il patto che abbiamo adottato in giugno, ma anche si migliori la nostra competitività e si coordinino le nostre politiche economiche. I Paesi che sono in attivo devono stimolare la loro domanda interna con un aumento dei salari e una riduzione delle tasse, è la miglior espressione della loro solidarietà. Nell'interesse di tutti, non è possibile infliggere una condanna a vita a Paesi che hanno già fatto dei sacrifici considerevoli. Oggi la recessione ci minaccia quanto il deficit!».
Come pensa di superare il fossato fra i partigiani dell'austerità e quelli della crescita?
«È compito della Francia realizzare questo compromesso, per cambiare di prospettiva. Due leve mi sembrano indispensabili. La prima è la fiducia. Prima usciremo dalla crisi della zona euro e prima gli investitori torneranno. Disponiamo di tutti i mezzi per agire: Meccanismo europeo di stabilità, regole d'intervento della Banca centrale europea. Allora usiamoli. La seconda leva è dare coerenza alla politica economica europea. Abbiamo definito un patto per la crescita, facciamolo partire. Ci sono 120 miliardi di euro. Alcuni diranno: è troppo poco. Ma ciò che conta è che siano spesi presto e bene. Il budget europeo è anche uno strumento per stimolare l'economia, in particolare attraverso i fondi strutturali. Propongo di fare di più, mobilitando delle risorse supplementari. La tassa sulle transazioni finanziarie sarà l'oggetto di una cooperazione rinforzata. Undici Paesi si sono detti d'accordo. Auspico che il suo gettito sia destinato per una parte a dei progetti di investimento e per un'altra a un fondo di formazione per i giovani. È compito della Francia convincere i nostri partner che l'austerità non è una fatalità».
Lei dice che siamo vicini all'uscita dalla crisi. Ma per dare motivazioni ai cittadini dell'Europa, che idea di Europa sostiene? Un'Europa federale o un'Europa delle nazioni?
«Il dibattito non è più quello dei primi Anni 60, l'Europa delle patrie o l'Europa federale... Allora i Paesi erano sei, poi sono diventati otto, poi dodici, adesso siamo 27 e presto 28 con la Croazia. Cambiando di dimensione, l'Europa ha cambiato modello. La mia proposta è un'Europa che avanza a più velocità, per cerchi differenti. Si possono chiamare "avanguardia", "Stati precursori", "nocciolo duro", poco importano i nomi, è l'idea che conta. Abbiamo una zona euro che ha un patrimonio, la moneta unica, e richiede un nuovo governo. Questa zona euro deve prendere una dimensione politica.
Sono favorevole a che l'Eurogruppo, che riunisce i ministri delle Finanze, sia rinforzato e che il suo presidente si veda affidare un mandato chiaro e sufficientemente lungo. Sono anche favorevole a una riunione mensile dei Capi di Stato e di governo di questa zona. Facciamola finita con questi vertici cosiddetti "dell'ultima spiaggia", queste riunioni "storiche", questi appuntamenti eccezionali. E che nel passato non hanno ottenuto che dei successi effimeri. I mercati sono aperti tutti i giorni. L'Europa non può più essere in ritardo. Questa organizzazione non escluderà gli altri Paesi. Chi vuole entrare nella zona euro sarà associato ai nostri dibattiti. Certi Paesi non lo vogliono: è la loro scelta. Ma perché ci devono venire a dire come dev'essere diretta la zona euro? È una pretesa che capisco, ma che non mi sembra coerente».
Per un'Europa più integrata con l'unione politica, forse anche con una politica di difesa, non ci vorrebbe un nuovo Trattato Costituzionale sottoposto a referendum?
«Credo di ricordarmi che nel 2005 abbiamo provato questa formula e che non ha dato i risultati sperati! Prima di lanciarsi in una meccanica istituzionale, gli europei devono decidere che cosa vogliono fare insieme. Il contenuto viene prima del quadro. La sfida istituzionale è spesso evocata per non fare delle scelte. Non mi è sfuggito che i più pronti a parlare di unione politica sono spesso stati i più reticenti a prendere le decisioni che la renderebbero inevitabile».
Allude ai tedeschi?
«No, a nessuno in particolare. Più volte, in passato, i tedeschi hanno sinceramente fatto delle proposte sull'unione politica, che non sono state colte. La Francia sostiene l'"integrazione solidale": ogni volta che facciamo un passo verso la solidarietà, l'unione deve progredire. Così l'unione bancaria che porta a una supervisione di cui la Bce sarà l'organo, e che permetterà la soluzione delle crisi con la ricapitalizzazione delle banche, è una competenza molto importante. Questa solidarietà non potrà funzionare senza controllo democratico: l'unione bancaria che serve a controllare la finanza sarà una tappa importante dell'integrazione europea».
Qual è la capacità della Francia di convincere la Germania e i Paesi reticenti ad andare avanti su questa strada?
«Abbiamo preso delle decisioni insieme al Consiglio europeo di giugno. Esse hanno avuto incontestabilmente delle conseguenze favorevoli: la calma è tornata sui mercati. La Bce ha contribuito chiarendo i suoi metodi di intervento. Dunque, la mia posizione è semplice: tutto il Consiglio europeo del 28 giugno, niente altro che il Consiglio europeo del 28 giugno, ma applicato il più rapidamente possibile. L'obiettivo è di regolare tutto da qui alla fine dell'anno. Oggi più nessuno pensa che l'euro sparirà o che la zona euro si spaccherà. Ma la prospettiva della sua integrità non basta. Ora, dobbiamo uscire dalla crisi economica».
Dunque, l'unione politica non è per adesso.
«L'unione politica è la tappa che seguirà l'unione di bilancio, l'unione bancaria e l'unione sociale. Darà un quadro democratico a quanto saremo riusciti a realizzare dell'integrazione solidale».
Per quando la vede?
«Dopo le elezioni europee del 2014. L'avvenire dell'Unione sarà la sfida di questa consultazione. È la condizione per mobilitare i popoli e alzare il tasso di partecipazione intorno a un vero dibattito, quello dell'avvenire stesso dell'Europa».
Molte voci si levano contro l'obbiettivo del deficit ridotto al 3% del Pil. È possibile un accordo europeo per rinviarlo di un anno?
«I Paesi non sono tutti nella stessa situazione. E molto dipenderà dalle nostre scelte su disciplina di bilancio e crescita. Questa discussione si farà nel 2013, su iniziativa della Commissione. L'obbiettivo è anche armonizzare i tassi d'interesse nella zona euro. Non è ammissibile che, nello stesso spazio monetario, ci siano Paesi che si finanziano all'1% a dieci anni e altri al 7%!».
La sua elezione ha creato attese enormi. Cosa direbbe a un greco disoccupato che non ha i soldi per curarsi?
«Che farò di tutto perché la Grecia resti nella zona euro e disponga delle risorse indispensabili da qui alla fine dell'anno senza che sia necessario infliggerle delle nuove condizioni rispetto a quelle accettate dal governo Samaras. Ma mi rivolgo anche agli spagnoli e ai portoghesi: è venuto il tempo di offrire una prospettiva al di là dell'austerità. La Spagna deve poter conoscere le condizioni precise per accedere ai finanziamenti previsti il 28 giugno. E non ha senso aggravarle. La Francia è il tramite fra l'Europa del Nord e quella del Sud. Io rifiuto la divisione. Se l'Europa si è riunificata non è per cadere nell'egoismo e nel ciascuno per sé».
È anche quel che dice ad Angela Merkel?
«Lo sa perfettamente. È il senso del suo viaggio ad Atene».
In un'Europa a più velocità, che posto occuperà l'asse Parigi-Berlino? È il primo cerchio?
«È la coppia che permette l'accelerazione. E che, quindi, può anche essere un freno se non è in fase. Da qui la necessità della coerenza franco-tedesca. Abbiamo un dovere d'unione che esige un senso elevato dell'interesse europeo e, dunque, del compromesso. Penso che questa relazione non debba essere esclusiva. L'Europa non si decide a due. L'amicizia franco-tedesca deve aggregare, associare, riunire. Faccio attenzione a non contrapporre i pretesi "grandi" o i supposti "piccoli" Paesi, né i Paesi fondatori ai nuovi aderenti. L'Europa ha bisogno di tutti. Le istituzioni comunitarie, Commissione e Parlamento, devono assolvere pienamente il loro ruolo. L'Europa richiede anche un'ambizione. È la visione storicamente affidata alla Francia e alla Germania. Se siamo stati capaci di unirci, noi, allora possiamo riuscire a farlo tutti!».
Qual è la maggior minaccia che pesa oggi sull'Europa?
«Di non essere più amata. Di essere vista nel caso migliore come un austero sportello di banca e nel peggiore come un riformatorio. E tuttavia l'Europa resta la più bella avventura per il nostro continente. È la prima potenza economica del mondo, uno spazio politico di riferimento, un modello sociale e culturale. Merita un sussulto per rinnovare la speranza».
Il peggio è passato?
«Il peggio, vale a dire la paura dell'esplosione della zona euro, sì, è passato. Ma il meglio non è ancora lì. Dobbiamo costruirlo noi».
Intervista a cura di Alberto Mattioli (La Stampa), Sylvie Kauffmann (Le Monde), Angelique Chrisafis (The Guardian), Berna Gonzalez Harbour (El País), Jaroslaw Kurski (Gazeta Wyborcza) e Stefan Ulrich (Süddeutsche Zeitung)