La produttività a scapito dei lavoratori non funziona, lo capiremo anche in Italia?
Luca Aterini
La produttività, questa sconosciuta. Il tavolo di confronto per rilanciare la produttività, messo ieri in piedi da imprese e sindacati, ha già deluso al primo avvio (prosegue oggi, vedremo con quali risultati). Monti sollecita alla celerità, vorrebbe avere un documento sfornato dalle parti sociali pronto in tempo per la prossima riunione del Consiglio europeo, giovedì prossimo. Intanto, le sei pagine confezionate dagli imprenditori sono state solo presentate, non consegnate, ai sindacalisti; soprattutto, stancano e sconcertano le soluzioni nuovamente proposte. Si richiede maggiore flessibilità, possibilità di aumentare l'orario di lavoro o di operare demansionamenti, assegnando gli occupati «a mansioni inferiori».
Impelagati nelle beghe nazionali, alcune sponde delle parti sociali sembrano confuse sulla strategia da seguire per rilanciare l'economia del Paese. Malelingue potrebbero addirittura pensare che stiano molto più attente agli interessi immediati della loro parte, piuttosto che a quelli dell'intero Paese, e dei cittadini e dei lavoratori che lo popolano. Per l'Italia quello della produttività è un problema, è vero, ma non si risolve cercando in tutti i modi di mortificare i lavoratori italiani, piuttosto che provare a riqualificarli.
Il vicepresidente della Commissione europea all'industria, Antonio Tajani, ha presentato ieri la nuova strategia di Politica industriale, ponendo in particolare risalto la necessità di re-industrializzare il Vecchio Continente, e di farlo procedendo con intelligenza, innovando e puntando su un'industria sostenibile sotto ogni aspetto - tanto che si parla esplicitamente di realizzare «un'economia a ciclo chiuso». È ad una progettualità di questo genere che dovremmo spontaneamente rivolgerci anche all'interno dei confini nazionale: oltre a tutelare l'ecosistema e la salute dei cittadini, questa sarebbe la strada maestra per recuperare terreno sul campo della produttività. Perché? È presto detto.
Come è possibile osservare nel grafico (vedi in alto) elaborato dalla Commissione, la produttività per ora lavorata, in Italia, è più alta della media della Ue a 27. Lo stesso (anzi, ancora di più) vale per la produttività del lavoro per ora impiegata. È soprattutto nell'industria manifatturiera che siamo indietro, con una bassa produttività. Non sono però i nostri colletti blu a battere la fiacca e non aver voglia di lavorare: la bassa produttività (che poi, in parole povere, sarebbe il Pil per ora lavorata o per persona occupata) è data dal tipo di produzione alla quale siamo dediti.
Come si evince dal grafico, registriamo scarse performance per quanto riguarda la quota di high-tech esportato (stiamo parlando di prodotti tipicamente ad alto valore aggiunto), con profonde ripercussioni negli squilibri della nostra bilancia commerciale; le nostre imprese, generalmente medio-piccole e con bassa specializzazione produttiva, investono poco in ricerca e sviluppo; a sua volta, una produzione che non richiede un elevata competenza intellettuale da parte degli occupati porta ad avere una percentuale molto bassa di lavoratori dipendenti nell'industria manifatturiera in possesso di un elevato livello di istruzione.
Perseguire l'obiettivo di un'imprenditoria sostenibile significa tentare di guarire molti di questi mali. Per creare le nuove filiere produttive necessarie è imprescindibile infatti formare adeguatamente i cittadini che dovranno lavorarci; significa altresì investire in ricerca e sviluppo per trovare le declinazioni pratiche di un nuovo modello di produzione e consumo.
La Commissione europea richiama esplicitamente ad una «produzione pulita (risorse ed efficienza energetica, uso di energie rinnovabili, riciclaggio, gestione di materie prime esauribili)» enumerando le possibilità che ci pongono le sfide sociali che abbiamo davanti, e anche per questo è necessario «attrezzare la forza lavoro alle trasformazioni industriali, in particolare attraverso una migliore anticipazione delle competenze necessarie». Non è mortificando i lavoratori che il nostro Paese potrà riconquistare il posto che gli spetta in Europa e nel mondo, ma valorizzando le risorse naturali e umane che possiede.