di Maria Vinciguerra*

Nel 1996, la legge Treu introdusse una opinabile norma in tema di contratto a termine. Tra la fine di un contratto a termine e l'inizio di un altro doveva esserci necessariamente un intervallo di 10 giorni (se scadeva un contratto a termine di durata non superiore a 6 mesi) o di 20 giorni (se il contratto in questione superava i 6 mesi). Se l'intervallo temporale non veniva rispettato, il rapporto di lavoro diventava a tempo indeterminato.

Accadeva così che alla scadenza del contratto a termine, il datore di lavoro invitava il lavoratore a stare a casa per 10 o 20 giorni (giusto il tempo dell'intervallo di legge) promettendogli che lo avrebbe richiamato per altro contratto a termine. Cosa che, parlo della mia esperienza personale, l'imprenditore faceva nella maggior parte dei casi.

Non saprei davvero spiegare il senso di questa norma. Sta di fatto che è stata ribadita dalla legge sul contratto a termine del 2001. La Riforma Fornero è andata oltre, allungando notevolmente quell'intervallo temporale: i 10 giorni sono diventati 60 e i 20 giorni sono diventati 90. A chi giova? Non certo al lavoratore che dovrà rimanere a casa per un tempo più lungo con il rischio di vedersi sostituito e non certo al datore che non per questo deciderà di prendere a tempo indeterminato il lavoratore.

Il Decreto Sviluppo del Ministro Corrado Passera dell'agosto scorso ha ragionevolmente smussato gli angoli della norma prevedendo i vecchi periodi di intervallo per le attività stagionali e nei casi che la contrattazione collettiva vorrà prevedere. Insomma consentita una riduzione se le parti sociali, nel tavolo dei rinnovi contrattuali, sono d'accordo.

Ma resta il non senso della disciplina voluta dal Ministro Treu (Governo Prodi) e ribadita dal Governo Berlusconi (Ministro Maroni): perchè stabilire intervalli di tempo non lavorato tra un contratto a termine e l'altro? Si combatte così la precarizzazione del lavoratore?

*avvocato giuslavorista

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