Voci della Decrescita
In attesa che il dibattito nato dal dossier di Valori di settembre sulla Decrescita si faccia dal vivo a Milano il 17 ottobre (Cascina Cuccagna, h18.30), ecco un contributo dell'economista Roberto Romano...
Analizzare lo sviluppo significa analizzare l'evoluzione complessiva della società e delle sue istituzioni. Della complessità dello sviluppo troviamo traccia nella riflessione teorica economica, che però non esaurisce la conoscenza dello sviluppo. Recentemente si sono affacciati anche degli approcci che sostengono la decrescita come orizzonte per rispondere ai vincoli ambientali e riproduttivi della terra, fino a sostenere che occorre "correggere" il Pil (Prodotto interno lordo) con degli indicatori adeguati legati alla "riproduzione" delle risorse naturali del Pianeta. In realtà chi studia i fenomeni economici studia anche i fenomeni sociali. Non si deve dimenticare che l'economia è una scienza sociale. Più che la correzione del Pil, un indicatore poco adatto a incorporare fenomeni non reddituali, sarebbe molto più utile trovare degli indicatori che possono rispondere meglio alla domanda: quale benessere? L'Undp (United Nations Development Programme) dal 1990 ha ideato l'Indice di sviluppo umano con lo scopo di "collocare le persone al centro dello sviluppo".
Alla base delle pubblicazioni dell'Undp c'è la convinzione che la dimensione umana dello sviluppo sia stata trascurata a tutto vantaggio di un'eccessiva enfasi sulla crescita economica. Finalmente un'istituzione internazionale formalizzava un indicatore superiore al Pil, senza però trascurarlo. Perché è stato abbandonato questo prezioso indicatore dall'orizzonte della discussione dei fenomeni economici, sociali e ambientali?
Indiscutibilmente la suggestione di modificare il Pil è molto più forte dell'Indice di sviluppo umano: il Pil rappresenta la capacità d'accumulazione del capitale, ma l'Indice di sviluppo umano era ed è il più interessante lavoro di adeguamento degli indici di benessere. In qualche modo misura gli effetti del capitalismo.
Ma ci sono altre questioni che devono essere affrontate: consumi, modello di sviluppo e modello di società. Il primo passo da trattare è il nodo dei consumi. L'aumento del reddito cambia la percezione del benessere e del consumo, alimentando nuove attività industriali e nuovi servizi. Non solo, ma la domanda dei paesi capitalistici è da tempo una domanda di sostituzione, in cui è il solo valore del bene a cambiare. Diversamente non sarebbe stato possibile ridurre l'intensità energetica per unità di prodotto nei paesi a capitalismo maturo, mentre è aumentata nei paesi in ritardo. Lo snodo da affrontare è proprio la modifica del consumo legata alla crescita dl reddito, che non significa più prodotti, ma prodotti diversi. A questo punto una teoria sul consumo (decrescita) potrebbe anche intervenire, ma capite bene che non si tratta di rivendicare buoni propositi, piuttosto lo sviluppo di un ragionamento organico e teorico che al momento non esiste.
Quindi il problema dei consumi non è inquadrabile dentro l'assioma meno consumi uguale a meno uso delle risorse del Pianeta, piuttosto nella dinamica maggiore reddito uguale a consumi diversi, i quali necessitano di minori risorse naturali, con delle implicazioni sociali enormi, senza il bisogno di scomodare la decrescita. Infatti, la modifica dei consumi più o meno volontaria legata alla crisi, non ha solo modificato il target dei consumi, ma sta modificando anche il modello di sviluppo. Un modello di sviluppo che può essere più ricco di benessere, di buon lavoro e cura del pianeta, ma solo se sussistono alcune condizioni che i sostenitori della decrescita e i sostenitori della crescita proprio non vogliono comprendere.
Per cambiare il modello di sviluppo occorre un bagaglio di conoscenze superiore rispetto al precedente modello, cioè dei lavoratori ben formati e delle imprese che cambiano la loro produzione. Se un Paese modifica la propria produzione, passando dalla meccanica alla "conoscenza", si produrranno beni e servizi a minore impatto ambientale e lavoro buono; se un paese non modifica il proprio modello di sviluppo si continuerà a bruciare maggiori risorse ambientali, a perdere posti di lavoro e, quindi, salari più bassi.
Per capire bene il fenomeno occorre andare molto nel concreto e più in particolare aprire una discussione seria sulla green economy. Proviamo a discutere del caso (unico) italiano.
Il problema principale dell'Italia è legato al peso specifico della propria struttura produttiva. Di tutto il panorama-opportunità che la green economy a monte dei processi produttivi, l'Italia ha un peso specifico pari al 5,7%, mentre questo rapporto sale al 60% quando trattiamo le applicazioni (installazione dei pannelli solari). Un po' poco se consideriamo gli aiuti fiscali pari a quasi 70 mld di euro da oggi al 2020, in nessun modo compensate da entrate equivalenti pari a non oltre 20 mld di euro tra Irap, ires e ire. Una spesa pubblica abbastanza fastidiosa se consideriamo che ogni euro di investimento nelle energie rinnovabili produce 98 centesimi di lavoro in Germania, Finlandia, Olanda e Cina, contro i 2 centesimi dell'Italia.
Indiscutibilmente l'applicazione delle tecnologie pulite crea lavoro, anche nelle economie a basso contenuto tecnologico come quella italiana, ma la sostenibilità dello sviluppo necessita una policy capace di agire su due fronti: la domanda e l'offerta. Diversamente si manifesterebbero paradossi insostenibili, come quello italiano: l'Italia è tra i primi produttori di energia rinnovabile del mondo, ma con il più alto uso di energia per unità di prodotto, nonostante gli incentivi pubblici siano tra i più alti a livello internazionale. Quindi l'Italia dovrebbe rimodulare gli incentivi legati alla produzione di energia rinnovabile al fine di creare attività manifatturiera attrezzata a tale scopo, mentre dal lato della riduzione delle emissioni e del risparmio energetico ci sono maggiori opportunità.
Quindi il problema non è la decrescita via forzosa contrazione dei consumi, piuttosto lanecessita di coniugare cambiamento dei consumi al modello di sviluppo. Sostanzialmente i consumi nei Paesi a capitalismo maturo sono già cambiati, così come i consumi delle imprese, ma la capacità di assolvere a questa domanda modifica la divisione internazionale del lavoro e del benessere.
Chi cambia il modello di sviluppo crea lavoro e cura l'ambiente, chi non cambia modello di sviluppo perde lavoro, conoscenza e reddito. Il pianeta non si salva riducendo i consumi, ma cambiando i consumi e quindi il modello di sviluppo. Se poi qualcuno vuole promuovere la sobrietà o la povertà come scelta di vita ha tutta la mia approvazione, ma non si può chiedere a tutti i poveri del mondi di rimanere poveri, oppure ai ricchi di diventare poveri. Faccio solo una citazione: sarebbe bello se tutti potessero avere una bella casa, un giardino, un bel lavoro e il tempo necessario per se.
di Roberto Romano, economista