PoETica/2 - Narrare essere fare social network dell'uomo.
Lo studio ed il confronto sugli stati di transizione scontano i limiti di un orizzonte in continuo e tumultuoso mutamento. Segnato dunque dalla provvisorietà del suo confine e spesso dalla precarietà di un suo fondamento. La ricerca sui nuovi media spesso non è stata, e forse tuttora non è, esente da tale flessione. Tra chi pone l'accento sulla primarietà dell'avvento digitale, con la sua sintassi funzionale, come artefice e responsabile del mutamento in atto, e chi vorrebbe considerare i nuovi mezzi di comunicazione di massa un mondo a parte, c'è l'uomo. La sua vocazione relazionale è il fondamento delle reti sociali.
La nuova realtà, e la vita che viene avanti è sempre una nuova realtà, pare spandersi, debordare, dilagare ovunque. Incontenibile nell'orizzonte visuale dell'assuefazione al passato. Imprevedibile nei suoi risvolti feriali. Indicibile nell'ermetismo poetico dei profeti. Incomprensibile dal cuore ottuso dei cinici. Invano il moralismo interessato (il moralismo è sempre interessato e in verità anche piuttosto fiacco ed inefficace davanti alla storia maiuscola) tenta di coprirla con la pudicizia improvvisata di sempre più capaci braghe da dipingere sulla bellezza dell'affresco vivente che nasce. L'acume etico (l'etica quando è tale è sempre intelligenza delle cose), non cerca di occultarne l'avvento, di coprirlo, di nasconderlo e se possibile, oggi, di annichilirlo. Piuttosto ne esplora in profondità l'essenza e tenta di ristabilire un profilo armonico tra un mondo che nasce ed un altro al tramonto. Proteggendo l'una, la vita nascente, tutelando l'altro, il mondo che muore.
Nell'incertezza dei tempi, i cui esiti visibili paiono talvolta sintomo di una latente schizofrenia, non fa eccezione la nuova realtà per eccellenza, forse la realtà eccellente. Quella dei nuovi media, se nuovi si possono considerare, dopo vent'anni, i mezzi di comunicazione creati grazie all'avvento del digitale. La loro messe, il loro pervasivo accamparsi in ogni istante ed in ogni luogo della nostra esistenza, in un flusso di infinita e continua rappresentazione, insidia ogni tentativo di sintesi che abbia l'ambizione di scolpirne un profilo definitivo ai confini tra due epoche.
La crisi, non solo nominale, definitoria, è il sintomo del mutamento in atto, non la causa. Il mutamento è sempre lento e si compie per sedimentazioni lievi del senso, per infinitesimi scarti di realtà. La sua genesi trae origine in fondamenti di valore, la cui narrazione e/o argomentazione è affidata ai mezzi. Per comprendere appieno la natura di questi ultimi, la vicenda che li riguarda, si devono attingere i fondamenti. La cui verità non è sempre chiara e facilmente percepita quando la storia è nel culmine della transizione. Le sintesi sono necessariamente, nelle epoche di transito lo sono più di sempre, abbozzi, frammenti, lacerti, presto inghiottiti dalla metamorfosi in corso e subito dimenticati dagli immaginari oggi non di rado saturi di rappresentazione istantanee, anche di se stessi.
La simultaneità fra evento, rappresentazione e sua comunicazione è sempre più diffusa. Difficile erigere un argine che aiuti la sedimentazione della memoria, che ne incoraggi lo svolgimento argomentato in profondità. L'urgenza dell'istante e della novità sembrano essere i due fondamentali del paradigma mediatico (e per la verità non solo di quello) vincente, la velocità.
Ai confini tra due epoche, si confrontano, e spesso purtroppo si scontrano, due antropologie, due esperienze esistenziali, e, talvolta, nell'incertezza, pare di abitare la Babele dei molteplici linguaggi, incomprensibili l'uno all'altro. Senza una pausa di grazia pentecostale che riallinei le voci e gli ascolti in unità di reciproca, responsabile comprensione. Servono pazienza ed umiltà, perché la verità di chi ha costruito un mondo altro al tramonto ha in sé lo stigma della rispettabilità, così come ne dispone quella di chi è testimone vivo di uno stato nascente. In mezzo, fra i due mondi, i sinceri persuasi ed i retori interessati, nascono, crescono e gravitano numerosi avatar di se stessi, personaggi in cerca d'autore, che pur avendo vissuto senza remissione l'epoca al tramonto, si improvvisano epigoni dello stato nascente. Ossimori viventi. O, sulla opposta riva della durata, si agitano mentori del bel tempo che fu, i quali, senza mai averlo conosciuto, per opportunità o per opportunismo, si iscrivono subito al circolo di coloro che vantano una vera o presunta rendita di posizione. Invocano il credito di un passato su cui lucrare, ancora per poco, i profitti esponenziali ed immeritati di un mondo che, fosse pure per età anagrafica, mai hanno conosciuto.
Mai come muovendosi lungo tali confini, si sperimenta quanto sia necessaria la coscienza, quella che denota e accende interiormente lo stato di consapevolezza. Se l'orizzonte muta, anche il senso delle cose inesorabilmente cambia. A nulla vale tenere ferma la propria prospettiva interiore se la comprensione dello scenario chiede di piegarsi sugli eventi per ascoltarne il significato, per comprenderlo. Che non significa necessariamente condividerlo.
Come scrive il poeta, con altro orizzonte e diverso afflato passionale, "la bussola va impazzita all'avventura/e il calcolo dei dadi più non torna." (Eugenio Montale, La casa dei doganieri). Non è sufficiente il coerente radicamento nel proprio passato per argomentare con bastevole accredito il mutamento del presente. Lo scoprono con sgomento i cantori del passato, il cui orizzonte interiore vaga cieco mentre la bussola dei mutamenti epocali va impazzita. Le cose che avevano amato, quelle stesse declinazioni interiori che erano assi portanti della realizzazione e della felicità, sono in preda ai marosi dell'epoca nascente e il calcolo dei dadi più non torna. Nemmeno il caso (il Fato, la Provvidenza?) ci è più amico e noi, che siamo suoi amanti fedeli, siamo soli e sgomenti nella deriva di una incomprensibilità senza profili, senza approdi, senza ancóre di salvataggio.
Scriveva Paul Celan in una sua celebre lettera ad Hans Bender: «Io non vedo nessuna differenza di principio tra una stretta di mano e un poema». Nessuno tra i poeti europei moderni, credo abbia cercato con più intensa dedizione alla parola e con maggiore ed estrema fedeltà personale, la via impervia che, per lievi scarti interiori, conduce dall'ego all'io e, da qui, già incline alla virtù dell'oblio di sé, al tu. Il tu è il destino della parola, sempre, e lo è stato in modo mirabile nella ricerca dell'indimenticato autore de Il Meridiano. Il suo tu, aperto all'oltranza esposta della sua parola poetica, «La poésie ne s'impose plus, elle s'expose», fino alla sublimazione sacrificale del suo corpo nella Senna, cercava il varco nel feroce ammutolire dell'umanità seguito all'olocausto. Lo cercava con l'ossessione degli amanti e con la fedeltà alla parola precisa che è dei poeti, dei poeti veri. Il suo profilo più alto, il più atteso, cercato in ogni lacerto di vita ed in ogni feritoia di luce aperta dal carisma dell'umanità, era l'Altro, quello dedito all'ascolto. Quell'attesa del tu, e non solo il trionfo di un ego surrogato dell'uomo, perduto, pareva fosse per sempre, nei campi di concentramento, o che proprio là aveva resistito nel cuore degli innocenti, e nel margine, dove sempre viene confinata dalla stupidità dell'imposizione assoluta e senza pietas né carità, la svolta di respiro. Quella di una creatura che si raccoglie nell'io, stretto a se stesso, per fare spazio al tu, e, forse, in esso, talvolta, al prossimo che è Dio.
Trovo spesso pretestuose le argomentazioni che sostengono i cantori della vita reale in opposizione ai mentori di quello che essi definiscono mondo virtuale e viceversa. Quasi sempre, accendono fuochi di paglia nella contrapposizione fra web e mondo, discussioni che riguardano il dentro ed il fuori la rete, come se numerosi fra i suoi frequentatori (quando non tutti, nell'apodittica di certe invettive) fossero una nuova incarnazione di Jekyll e Hyde, un potenziale (o un vero?) schizofrenico. Come se anche la rete non fosse vita e la vita non fosse anche rete. Come se tutte le forme espressive che l'uomo ha creato per rappresentarsi, per narrarsi, per comunicare, per informare il mondo di sé e per esserne informato, non fossero esse stesse sin dall'origine insieme virtuali e reali. Il filo d'oro che le tiene unite, non solo nella loro irrevocabile evidenza del tutto reale, è se mai l'interiorità di chi le vive, non unicamente o prevalentemente la sintassi digitale. La quale, in termini sia strumentali sia funzionali, ha una propria rilevanza, ed è però una derivata della relazione che ciascuno accampa tra la propria vita e la rappresentazione di sé. Che della vita non è parte meno reale, anche quando mente o si travisa. Non sempre i distinguo però portano solo l'eco della battaglia, il suono sferragliante di un'indole divisiva.
Talvolta sono piccole icone di senso che risvegliano in noi la parte migliore di noi stessi, e colgono, in una specificità strumentale, del mezzo dunque, un punto di merito che evoca la qualità dell'animo umano. E svelano un'attitudine, storicamente attestata, la vocazione originale ed originaria ad un modo particolare di abitare le potenzialità del mezzo, sulla cui natura l'ultima (e probabilmente anche la penultima) parola è ancora tutta da intuire. Un'attitudine della creatura umana, e non una qualità del mezzo, che rimanda a parole forse spesso abusate e poco coerentemente testimoniate, dentro e fuori la rete, quali gratuità, libertà, ascolto, dialogo. Parole che furono, e che ancora sono per molti, la guida e la speranza degli esordi in rete, talvolta l'ospite eccellente e l'unica dimora possibile per testimoni di una marginalità esistenziale della virtù. Parole che hanno lasciato un segno difficile da rimuovere anche da parte di chi tenta di occupare i nuovi media manu militari, con la prepotenza dell'ego, dunque. Certo, l'archetipo mass-mediale dell'uno che si impone ai molti, esce piuttosto malconcio in un confronto con la filosofia open-source (condivisione e gratuità) e con il modello assunto da chi si espone (forse, di nuovo, Celan?) in una comunicazione "uno a uno". Che se ancora non è irrevocabilmente dialogo, certo ne costituisce e ne statuisce buone premesse. Scrive @GiovannaCosenza: «[...] Ed è questo il punto: in rete contano le relazioni più vicine, conta la cura dell'altro/a, conta la capacità di dimenticare l'io e mettere al centro il tu. [...]», (GC, "L'importanza di fare rete").
La profondità dell'intimità, dove si forma matura e riposa la verità di ogni io, forse proprio in virtù, o in conseguenza di una più ampia e diffusa possibilità di comunicare, tende spesso a manifestarsi oggi ancor più di sempre in quella che Serge Tisseron ha definito, riprendendo e modificando un concetto già esposto da Lacan, extimité. Tentare di essere memoria, presente e profezia significa comprendere la forma in cui si rappresenta il mondo, andando oltre la forma stessa. Verso ciò, o chi, di quella forma è anima e sostanza viva. L'intelligenza critica del cuore è sapida di conoscenza, da esercitare certamente con competenze strumentali ed esperienze di funzionalità. Metti prima l'uomo, il suo cuore e la sua mente, non è però uno slogan felice: è una necessità vitale della creatura sin dall'origine della sua storia. A statuire la qualità della relazione è la persona, non mai il mezzo. Il profilo etico di una comunità si disegna sempre lungo i fondamenti di valore che la animano. Senza i quali non v'è alcuna forma duratura e nessun mezzo è idoneo a generarli. Malgrado la disponibilità di una sterminata messe di strumenti.
Non tutta la comunicazione si preoccupa di, o è responsabilmente occupata a, costruire comunità. Spesso, la narrazione è animata da una sterile rappresentazione del sé che si racconta ed ha quale unico orizzonte un proprio io ipertrofico. La comunicazione di massa, come del resto la vita, è affollata di solipsismi d'autore. Talvolta la parola colpisce, non muove dall'animo in cerca di un tu, ma viene scoccata per ferire, brandita come una clava dall'ego ottuso per annichilire un tu che mai potrà incontrare in noi la luce di una relazione viva. La ferialità non è né più né meno poetica in tal senso. La prosa si rischiara solo quando la parola sboccia nel fiore che costruisce intesa e senso, comunità. L'incontro attende un io ritratto nell'ascolto, ma aperto ad accogliere la parola che verso lui vola. La comunicazione in rete potrebbe non essere né più né meno poetica in tal senso. E' la verità di noi che statuisce la verità delle relazioni. La confidenza, l'amicizia, l'amore non rispondono dell'efficacia dei numeri. La quantità, spesso agitata strumentalmente come un indizio del significato, dice poco della verità del senso. «[...] su Internet le reti possono essere molto più affollate: migliaia di contatti, o addirittura decine e centinaia di migliaia per le celebrities. Sono ancora reti, queste? Dal punto di vista informatico, certo che sì. Dal punto di vista delle relazioni umane, bisogna starci attenti. [...]», @GiovannaCosenza, "L'importanza di fare rete".
"Fate della vostra vita un'opera d'arte", ammoniva Raimon Panikkar. Una stretta di mano può dunque ben essere un indizio poetico. Nella vita quotidiana. Ma una stessa parola aperta al tu cui ci rivolgiamo, ci pone un gradino più in alto lungo la scala non sempre agevole dell'incontro. Lo è nella prassi feriale, la stessa di chi nella frequentazione della rete cerca un destino di condivisione di ascolto. Non vale credere che l'invito all'innocenza, in un mondo, dunque anche in una rete, affollato di agguati, sia titolo per il manuale degli utili idioti. La storia pullula di esempi in cui la purezza delle intenzioni è stata strumentalizzata per fini opposti a quelli di chi l'aveva testimoniata. Forse, però, la storia stessa è viva proprio in virtù di chi ha osato credere. Prima di tutto nella rinuncia ad un poco di sé per fare spazio all'altro. Nella vita, nella parola. Nell'essere e nel fare come nelle loro sempre diverse rappresentazioni e declinazioni. Nell'esperire una conoscenza o nell'acquisire un'informazione come nel comunicarle, nel metterle in comune condividendole nella narrazione.
Diceva ancora Raimon Panikkar, servendosi di una poetica metafora della finestra, sguardo aperto e trasparente che è preludio di comunione: «Abbiamo bisogno uno dell'altro». Anche nel senso alto di una verità e di una conoscenza condivise. Nella costruzione armonica di una comunità. Nella coerente testimonianza di un'epica feriale che è condivisione di teoria e prassi. Le cose - i fatti, i gesti -, le parole. E queste ultime, unità minimali che danno corpo al pensiero esposto, non sono meno significative e dirompenti della funzionalità e dell'azione. La rete è una fra le tante rappresentazioni possibili della realtà e prima ancora di noi stessi. Non è la prima, non è la sola. Forse, però, nella comunicazione in rete, meglio che in altre forme, è più facile esercitare le qualità umane che possono aiutare a costruire la comunità, in una condivisione che può essere anche preludio di comunione. "We need each other". Sì, abbiamo bisogno l'uno dell'altro. Spesso, le grandi imprese come le piccole che caratterizzano l'epica feriale di un'avventura umana, se piccole le si può considerare, nascono da un sogno. Dalla consapevole e volontaria condivisione di un sogno. Non solo dalla spartizione, sia pure equa, di un pur legittimo interesse.
Giordano Mariani