Cosa cambia dopo il Forum fortemente voluto dal ministro Riccardi?

Considerazioni a margine di un happening ricco di pubblico, promesse e ambiguità.

E' sicuramente un novità positiva che la comunicazione su questo argomento sia stata riaperta, dopo anni di silenzio durante i quali non si capiva se l'Italia fosse ancora presente o meno nella cooperazione internazionale. E' positivo che la cooperazione sia stata indicata come un imperativo etico e al contempo un investimento strategico. E' positivo avere riconosciuto le ingiustificabili latitanze degli anni passati ed essersi riproposti di cambiare rotta. Dobbiamo sperare tuttavia che non si tratti di una falsa partenza e, soprattutto, che questo forum-happening, così fortemente voluto dal ministro tecnico alla Cooperazione, inauguri davvero una stagione di ricerca-azione capace di valorizzare le energie reali e non quelle più o meno inventate negli accordi bilaterali, spesso legate a convenienze che finiscono per essere contraddittorie e controproducenti rispetto ad uno sviluppo reale delle popolazioni. Anche l'auspicato (dal ministro) ingresso dei privati nella collaborazione non dovrebbe sottrarsi a questo principio. La cooperazione non deve essere una emanazione, la longa manus della politica estera italiana. E neanche del suo business system.

Inevitabili tuttavia le perplessità a partire dalla presa di visione degli sponsor: che ci fa una compagnia petrolifera come sponsor principale del convegno? Va bene - secondo quanto dichiara l'amministratore delegato di Eni - che «i Paesi produttori sono proprietari del petrolio e del gas» e hanno perciò «il diritto di ricavarne il massimo beneficio», ma a quale prezzo? Di quale acqua parla se gli abitanti del Delta del Niger sono costretti a bere acqua inquinata dall'attività petrolifera condotta anche dall'Eni? Quando si parla di cooperazione, soprattutto a certi livelli, sarebbe consigliabile cominciare da qualche mea culpa e non solo cercare di vendere bene la propria immagine. La stessa cosa vale per il Programma Alimentare Mondiale (Pam). In tanti anni di Ciad (chi scrive ne ha trascorsi 20 lì) di emergenze ne abbiamo viste più di una, ed è capitato che ci si sia rifiutati di collaborare nella distribuzione dei viveri per non partecipare a operazioni-immagine che, invece di aiutare le popolazioni, distruggevano anche quel poco che c'era. Mi riferisco al fatto che se immettiamo sul mercato un'imponente quantità di merce proveniente dall'estero, sulla base di un calcolo teorico del fabbisogno non confrontato con la reale situazione alimentare in un territorio dato, il massimo che si può ottenere è la rovina del mercato locale che, combinata con fenomeni endemici di corruzione, finisce col rendere la cura peggiore del male.

A livello politico la prima preoccupazione nella cooperazione dovrebbe esser data alle condizioni che la rendono efficace in termini di sviluppo umano cioè di benessere delle popolazioni. E' l'uovo di colombo! Non basta una generica "attenzione" alle popolazioni o al rispetto dell'ambiente. Ci vogliono orientamenti e scelte precise che garantiscano popolazioni e ambiente altrimenti l'aiuto nei settori vitali di salute, istruzione, agricoltura si riducono a condizionalità minime e previe per raggiungere obiettivi che non solo non hanno nulla a che fare col futuro della gente ma lo compromettono. Le prime potenzialità di un territorio sono quelle che servono alla vita e al futuro della gente del posto. Il petrolio serve poco a questo scopo mentre l'esperienza dice che, in genere, contribuisce pesantemente a determinare il peggioramento della vita delle persone, il deterioramento inevitabile dell'ambiente e delle sue vere potenzialità di sviluppo. La prima cosa che mi attenderei dal governo in materia di cooperazione è che certifichi la viabilità sociale ed ecologica dei progetti imprenditoriali e che questa certificazione sia considerata imprescindibile nelle negoziazioni che riguardano gli interventi di sviluppo economico con il Sud del mondo. Siamo decisamente stanchi di gente che va a fare affari in Africa e che con una mano dà e con l'altra prende due volte quello che ha dato.

Ma c'è anche il fattore culturale. I progetti di sviluppo, se sono soprattutto "nostri" hanno gambe corte, perché non tengono in conto mentalità, tradizioni e abitudini. Hanno soprattutto bisogno di evolvere senza distruggere il bene più importante della gente che è la sua cultura. L'esempio più patente è stato in Ciad l'introduzione della coltura del cotone: a colpi di frusta. Questo significa, in particolare, che se non cambiamo approccio mettendo al centro non solo i bisogni delle popolazioni ma anche la loro soggettività e titolarità, nella migliore delle ipotesi diffonderemo nel mondo buone e inefficaci intenzioni, nella peggiore produrremo inqualificabili danni. La cooperazione ha tempi lunghi e impone in primo luogo a noi di cambiare i nostri parametri di efficienza! Sono rimasto allibito ascoltando le affermazioni di un nostro docente universitario: piantare patate rende 1, valorizzare il patrimonio culturale vale 10. Si riferiva ad una collaborazione con il Perù. Ok, va bene! Ma se la gente ha sempre coltivato patate, significa che la patata è un alimento di base. Poco conta affermare che esiste una zucca, che la gente non considera prioritaria o addirittura non conosce e potrebbe rendere meglio delle patate. La gente vorrà patate e non darà molta importanza al fatto che nel proprio territorio esista un meraviglioso museo. Lo stesso vale, in altri paesi, per il miglio, l'arachide, la manioca.

Il cuore della cooperazione non è l'economia ma la qualità delle relazioni. In questo senso aver affermato la necessità di un cambiamento del paradigma nell'aiuto allo sviluppo è sicuramente importante: non più donatori - beneficiari ma partners. Ma ciò che conta è che siano i beneficiari ad essere partners e non gli intermediari, anche locali. Beneficiario globale della solidarietà è la popolazione. Per raggiungere la popolazione si deve necessariamente passare attraverso delle mediazioni, persone e istituzioni. In Africa non mancano queste mediazioni. L'ammissione che i decenni di silenzio politico non hanno interrotto l'impegno degli italiani nella solidarietà e nello sviluppo, dovrebbe illuminare sul fatto che ci sono competenze disponibili, uomini e donne, organizzazioni con esperienza "da vendere". Non basta consultarli vanno messi ai posti chiave.

Last but not least, è importante ricordare - soprattutto in una sede come questa - che la più efficace, immediata forma di cooperazione è rappresentata dalle rimesse che i migranti inviano alle famiglie nei paesi d'origine con continuità. Va riconosciuto che questa possibilità è stata chiaramente individuata durante i lavori e annunciata dal ministro Riccardi nelle sue conclusioni. In particolare ha annunciato che è stata tolta, dal ministero dell'economia, l'imposta sulle rimesse degli immigrati. D'altra parte, lo stesso ministro ha sottolineato con vigore che il mondo degli immigrati «non  ci invade» e che è indispensabile «maturare una visione più positiva del valore dell'immigrazione». Ma se si vuole essere coerenti con le proprie premesse, in un Paese come l'Italia, non può esserci vera cooperazione se non si riprende in mano la questione dell'immigrazione e non si rivede l'impianto delle leggi che la regolano, uscendo dalla logica emergenziale e securitaria. Non basta ridurre l'imposta sulle rimesse. La nomina a ministro del fondatore e capo di una organizzazione impegnata nella cooperazione è sicuramente un segnale: l'importante è che non resti solo un segnale.

Daniele Frigerio (missionario comboniano)

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