Luca Aterini
Il presidente Napolitano ha scelto la platea madrilena, con la Spagna adesso più che mai nell'occhio del ciclone finanziario, per sottolineare una volta di più che «non dobbiamo commettere l'errore di esaurire l'Europa nella moneta unica». Un'unione di popoli presuppone un progetto culturale che è anche e comunque condivisione di un percorso di sviluppo economico, oltre che maturazione di un'identità unitaria.
Il progetto portato avanti dalla Commissione europea si inserisce proprio su questo tracciato, e non a caso si intitola Connecting Europe Facility (Cef). Un progetto su cui la Commissione punta forte, con un piano investimenti da 50 miliardi di euro. Rappresentati delle istituzioni europee (e di alcuni dei più importanti gruppi imprenditoriali del continente) si sono riuniti ieri a Bruxelles per discutere nel merito di questo strumento, inserito dalla Commissione europea nell'ambito del quadro finanziario pluriennale dell'Ue 2014-2020. Nonostante i feroci morsi della crisi, non possiamo dimenticarci che l'Europa ha ancora molte carte da giocare sul tavolo dello sviluppo: il mercato europeo è ancora il più grande del mondo, rappresentato sinteticamente dal presidente della Commissione, José Barroso (Nella foto), nella sontuosa cifra di 12,6 trilioni di euro. «In tutti e tre i settori (ricompresi all'interno del progetto Cef, ndr) - energia, digitale e dei trasporti - ci sono aziende che sono davvero innovatori globali», ha tenuto a precisare Barroso.
«Il meccanismo per collegare l'Europa è il miglior esempio di 'valore aggiunto' europeo che il bilancio dell'Ue in grado di fornire», ha precisato Siim Kallas, vicepresidente della Commissione europea e commissario ai Trasporti: «Investimenti mirati nelle infrastrutture essenziali contribuiranno a creare posti di lavoro e stimolare la crescita e la competitività, nel momento in cui l'Europa ne ha più bisogno». Tenendo conto anche degli effetti economici indiretti derivanti dall'implementazione di nuove infrastrutture, si stima che gli investimenti in questo settore, ha incalzato Kallas, «creino 18.000 posti di lavoro per ogni 1$ miliardo di spesa per nuovi investimenti».
Kallas snocciola investimenti in infrastrutture anche discutibili, come l'ormai famigerata linea ferroviaria Torino-Lione - ed è proprio qui che la discussione nel merito della bontà degli investimenti sui quali puntare dovrebbe mostrare maggiore apertura ad una pluralità di voci - ma il tono dell'intera conferenza ha il merito di porre l'accento su una strategia di sviluppo "altra" dalla litania della sterile austerità.
Mettere sul piatto un piano d'investimenti di lungo periodo in settori nevralgici per l'economia pone le condizioni per una situazione «win-win», come l'ha definita Neelie Kroes, anch'egli vicepresidente della Commissione e responsabile per l'Agenda digitale: «questo non è un battibecco su chi ottiene una fetta più o meno grande della torta. Si tratta di rendere la torta più grande».
L'Europa si trova di fronte ad un duplice e grave problema. Perché la strategia di sviluppo si dimostri vincente, all'Europa non basta intraprendere l'auspicata risalita dei tassi di occupazione - ormai drammaticamente scesi ben oltre i livelli di guardia. Rimanendo in metafora, la torta invocata da Kroes non solo dovrà preso allargarsi, sgonfiando le allarmanti tensioni sociali che crescono attorno alla piaga della disoccupazione, ma tingersi di verde per imbarcare il Vecchio continente sulla strada di uno sviluppo durevole, e quindi sostenibile.
Se dunque qualcosa comincia ormai a muoversi - anche ai più alti piani istituzionali - riguardo alla necessità di investire nelle infrastrutture comunitarie e valorizzare aziende europee «che sono davvero innovatori globali», ancora si registra un'attenzione troppo scarsa circa una strategia sostenibile di sviluppo. Eppure, l'Europa ha ancora molto da dire su questo piano, e una strategia industriale europea per lo sviluppo sostenibile - un Green New Deal - sarebbe la migliore notizia per sanare due delle più grandi ferite aperte di questi tempi incerti: quella di un lavoro che non c'è e di un ecosistema che rimane soltanto un frutto da spremere del tutto prima che marcisca. Va detto e ribadito inoltre che quando si parla di sviluppo sostenibile non lo si leghi solo all'energia, perché altrimenti sarebbe comunque una rivoluzione a metà. Grida vendetta il fatto che anche quando si parla di strategia di sviluppo, la materia, intesa come flussi e quindi input e output del metabolismo economico, restino fuori dalla discussione sia in termini di opportunità, sia di criticità e che quando va bene si intervenga solo sulla coda dei flussi stessi, ovvero sui rifiuti.