Due delle maggiori crisi planetarie che viviamo, la crisi alimentare e quella climatica, hanno come causa principale il sistema alimentare agroindustriale: dall'agricoltura all'allevamento industriale fino ai supermercati. Una catena che opprime le popolazioni e spreme le risorse del pianeta, con Monsanto che afferra un'estremità e Walmart l'altra.

E il Messico è una triste testimonianza di questo fenomeno (leggi "Comer o no Comer ¿quién decide?" La Jornada, 25/8/12).

La responsabilità di questa catena nel provocare il caos climatico è fondamentale ma siccome la realtà è molto differente da ciò che ritroviamo nella retorica imprenditoriale, molti si chiedono su cosa si basano queste affermazioni. Un riferimento obbligato è il documento di Grain "Alimenti e cambiamento climatico, il link dimenticato" (www.grain.org), che prende in considerazione le principali cause del cambiamento climatico tra più di 350 totali.

La maggior parte degli studi ufficiali - dal Rapporto Stern della Gran Bretagna al Gruppo intergovernativo sul Cambiamento Climatico (IPCC) e altre istituzioni - individuano nell'agricoltura industriale, principalmente nelle monocolture, con l'impiego elevato di prodotti sintetici (fertilizzanti, pesticidi, semi ibride o transgeniche), la causa che incide per l'11-15% sulle emissioni di gas serra, assegnandole il terzo o quarto posto tra i fattori causanti il cambiamento climatico.

Sicuramente quanto detto non esaurisce la complessità del problema perché il sistema agroalimentare è direttamente collegato a percentuali importanti di altri fattori identificati come responsabili del dissesto climatico (trasporti, produzione di energia, deforestazione).

La deforestazione e il cambiamento di destinazione dei suoli, ai quali si attribuiscono fino al 20% delle emissioni di gas serra globali, sono la conseguenza, per il 70-90% dei casi, dell'espansione della frontiera agricola, che invade savane, boschi e aree umide nelle quali vengono installate monocolture industriali di beni alimentari controllate da multinazionali, come nel caso della soia, canna da zucchero, palma da olio, mais industriale e colza.
Pertanto il 15-18% delle emissioni dovute alla deforestazione sono in realtà da considerare integrate nei processi del sistema agroindustriale.

Un altro fattore è rappresentato dal gran numero di trasporti richiesti dal sistema alimentare, si pensi al trasferimento delle derrate ai magazzini di stoccaggio, ai centri di trasformazione, ai punti di distribuzione e poi di vendita e, in più, all'enorme quantità di spostamenti internazionali di alimenti che, nella maggior parte dei casi, sono del tutto inutili e che avvengono solo per il guadagno che le imprese ottengono comprando a basso costo in un paese e rivendendo a prezzi elevati nell'altro o facendo pagar caro il lusso di mangiare prodotti fuori stagione in qualsiasi parte del mondo.

Grain calcola che il 56% dei gas serra dovuti ai trasporti sono da ricondursi al sistema alimentare. L'altro 8-10% lo attribuisce, sulla base di molteplici statistiche, all'industria di trasformazione e imballaggio di alimenti, il 12% all'energia necessaria alla refrigerazione e un altro 12% alla vendita in negozi. Quindi, la trasformazione, imballaggio e vendita al dettaglio degli alimenti è responsabile di un altro 15-20% dell'emissione dei gas serra.

Questa forma di produzione, distribuzione e consumo industrializzato produce uno spreco di cibo enorme: dagli stabilimenti agricoli ai centri di trasformazione, dai distributori ai commercianti, si stima che la metà del cibo si deteriora! Come Grain illustra nel suo studio, questo cibo sarebbe sufficiente a sfamare sei volte le popolazioni povere del mondo.

La maggior parte del cibo che va sprecato si decompone nelle discariche. Secondo rapporti ufficiali, il 3-5% delle emissioni di gas pericolosi proviene proprio da questi luoghi. Il 90% di questi gas si deve cioè alla decomposizione degli alimenti.

Riassumendo, il sistema alimentare agroindustriale è responsabile dell'emissione di gas serra per l'11-15% a causa dell'agricoltura industriale, il 15-18% a causa della deforestazione, il 15-20% a causa dei trasporti, trasformazione, imballaggio, refrigerazione e vendita nei supermercati e il 34% a causa della decomposizione degli alimenti che finiscono in discarica. Insomma è responsabile per il 44-57% delle emissioni che provocano il cambiamento climatico. Altri studi sulle emissioni di gas derivanti dall'allevamento intensivo di animali - non menzionati nei dati precedenti - situano queste percentuali nella frangia superiore.

Inoltre, l'agricoltura industriale utilizza (e contamina con l'uso dei pesticidi) il 70% dell'acqua potabile della terra. Di quel che resta delle risorse idriche, solo le cinque multinazionali del sistema alimentare globale - Danone, Nestlé, Unilever, Anheuser-Bush e Coca Cola - consumano, privatizzando di fatto, una quantità di acqua sufficiente per soddisfare le richieste domestiche quotidiane di tutte le persone del mondo.

Paradossalmente, questa catena agroindustriale non dà neppure da mangiare alla maggior parte degli individui: il 70% della popolazione mondiale si alimenta grazie a quanto prodotto dai contadini e agricoltori familiari, indigeni, raccoglitori, piccoli pescatori, orti urbani (leggi "Quién nos alimentará?", Gruppo ETC).

Le alternative esistono e sono a portata di mano: uscire dalla catena agroindutriale sostenendo e rafforzando la rete alimentare dei contadini, la produzione culturalmente diversa e decentralizzata, senza pesticidi, i mercati locali. In questo modo può essere ristabilito l'equilibrio del suolo, la principale fonte di assorbimento e ritenzione di anidride carbonica del pianeta.
[Fonte: La Jornada].

Silvia Ribeiro
Ricercatrice del Gruppo ETC
Adital

Traduzione di Francesca Pippo

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