Giovanni Del Re
La cultura potrebbe essere il petrolio dell'Italia. Lo dice un rapporto della Ue. Che accusa il nostro Paese che «non ha una strategia nazionale per lo sviluppo del suo settore culturale e creativo». Peggio, anziché investire in questa preziosa risorsa, l'Italia che fa? Continua a tagliare (-35% tra il 2008 il 2011).
BRUXELLES - Potrebbe essere il "petrolio" italiano, una risorsa immensa su cui far ripartire la crescita - eppure l'Italia di questo incredibile giacimento non sa che farsene. Parliamo della cultura che Bruxelles vede come un cruciale volano di sviluppo per tutta l'Ue. E che invece, con sorpresa mondiale, proprio l'Italia che attira milioni di persone da tutto il mondo per il suo straordinario patrimonio artistico-culturale, trascura da troppo tempo. Con il rischio che proprio quella identità che il mondo ci riconosce vada perduta.
È serio il monito lanciato da un rapporto preparato per conto della Commissione Europea dalla Eenc, la Rete europea degli esperti sulla cultura, e pubblicato in questi giorni (molto discretamente, a dire il vero) sul sito del commissario alla Cultura Androulla Vassiliou. Un rapporto - ce ne sono anche su vari altri stati membri - commissionato da Bruxelles nel quadro della preparazione del bilancio multiannuale dell'Ue 2014-20, e soprattutto dei fondi strutturali, per meglio individuare le priorità. E per Bruxelles una cosa è chiara: la cultura è una priorità perché vale, e tanto, anche in termini economici. Basti dire che in un altro rapporto, presentato a gennaio scorso dalla stessa Commissione, si sottolineava come la cultura e le attività creative costituiscano ormai il 3,3% del pil Ue (contro il 2,6% del 2006) e il 3% dell'occupazione. Un potenziale particolarmente elevato per l'Italia, che si vanta di ospitare il 70% dei beni artistici mondiali. «In linea di principio - si legge nel rapporto appena pubblicato - se vi fosse un serio tentativo di dare alla cultura la giusta priorità nell'agenda politica del paese, vi potrebbe essere una seria possibilità che i settori culturali e creativi diano un importante contributo nel ridisegnare la tanto agognata formula per una nuova crescita per l'Italia».
Già, è proprio in quel «se» che casca il proverbiale asino. Perché, avverte il rapporto, «al momento il paese non ha una strategia nazionale, per quanto generale o provvisoria, per lo sviluppo del suo settore culturale e creativo». Peggio, anziché investire in questa preziosa risorsa, l'Italia che fa? Continua a tagliare, secondo il documento -35% tra il 2008 il 2011, per arrivare allo 0,2% del pil. Negli anni Cinquanta e Sessanta era quattro volte tanto. In cifre assolute, l'Italia, a fronte di un patrimonio artistico culturale molto più vasto di qualsiasi altro paese europeo, ha disposizione per il settore 5,6 miliardi di euro contro i 7,5 miliardi della Francia o i 12,5 miliardi della Germania, che non ha né Pompei, né il Colosseo, né gli Uffizi né Venezia. Risultato: «la mancanza di risorse sta portando frequenti episodi di degrado di beni storici (v. ad esempio Pompei, ndr) e a danni che stanno avendo vasta eco e stanno creando la percezione di decadenza di alcuni siti culturali italiani». Il danno non solo materiale, ma anche di immagine, può essere devastante: «l'attuale identità culturale dell'Italia, ancora in discreta salute (?) può essere collegata a una rendita storica consolidata, piuttosto che a intelligenti strategie di conservazione e sviluppo. Come conseguenza, tale identità potrebbe morire se non si farà qualcosa per impedirlo».
Al massimo in Italia la cultura è assai spesso semplicemente «ancillare», dice il rapporto, al turismo tradizionale. Con un effetto perverso: la "museizzazione" delle città d'arte. «Lo stesso turismo culturale - avvertono ancora gli esperti - soffre del progressivo impoverimento della scena e della vitalità culturale delle "città d'arte", che stanno progressivamente rimodellando il loro tessuto urbano e sociale per adattarsi in modo incondizionato ai bisogni e alle attese dei turisti, trasformandosi così, gradualmente, i "parchi a tema" senza vita».
Tutto questo, in realtà, a leggere il rapporto è anzitutto il frutto di un sistema profondamente guasto. Cominciando dal fatto che «grosso modo un italiano su due in sostanza non è interessato alla cultura, e in particolare alla sua produzione, conservazione e sostegno». E poi c'è, neanche a dirlo, la politica che ha occupato in modo pernicioso il comparto. «Il principale ostacolo a una svolta - leggiamo infatti - è la tendenza della dirigenza politica italiana a usare la cultura come una misura anticiclica e come ammortizzatore sociale, o come aree protette per la creazione di rendite di posizione», costituendo «sacche di privilegi ed inefficienza nei settori culturali». Potremmo continuare con la demotivazione per i giovani, cui viene ripetuto, ricorda ancora il rapporto, che studiare materie culturale «non porta lavoro», perché per gli italiani, denuncia Bruxelles, la cultura è simbolo di perdita e di sussidio. E così chi invece ha osato fare scelte culturali, si trova costretto molto spesso a cercare posti all'estero dove gli italiani sono ancora ricercati e dove la cultura è business redditizio.
Ci vuole, insomma, un profondo ripensamento, se si vuole non solo che la cultura porti crescita e sviluppo, ma che sopravviva in Italia. E dire che si potrebbe fare tanto. Ad esempio, dice Bruxelles, la sola completa digitalizzazione del patrimonio artistico e culturale del Belpaese promuoverebbe al contempo alte tecnologie, cultura, lavoro per moltissime imprese e tanti posti di lavoro. Più in generale, la fusione tra cultura e creatività con la cultura d'impresa, che già portarono ai successi della moda e del design Made in Italy, «potrebbe portare a una nuova ondata di talento imprenditoriale nei settori culturali e creativi». Il potenziale per una rinascita tutta italiana fondata sul "petrolio" nostrano, insomma, c'è tutto. Solo che bisogna coglierlo.
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