Sono i figli, rimasti a casa, di tate, colf, badanti. Crescono soli, mentre le madri si occupano della vita e dello sporco degli altri. Il nesso tra la condizione e le problematiche di queste lavoratrici e quelle delle loro datrici di lavoro.
L'assunzione di una tata o di una badante (in nero, bianco o grigio) non è mai un gesto neutro. Buona parte dei bambini italiani, e dunque anche la classe dirigente di domani, è allevata oggi da tate filippine, ucraine o peruviane. Questa cosa, soprattutto sul medio periodo, potrà dare dei risultati interessanti sul piano della multiculturalità e del rifiuto del razzismo. Un bambino accudito da una tata straniera nella maggior parte dei casi interiorizzerà la sua figura come positiva ed è improbabile che crescendo diventi xenofobo. Non sono in grado di citare studi a supporto di questa tesi. Ma credo che il buon senso possa convalidarla. Un altro aspetto positivo del fenomeno è che ha permesso a molte donne di emanciparsi da situazioni difficili, fare studiare i figli e sostenere le famiglie di provenienza.
C'è un documentario del 1995 che evidenzia bene questa dimensione di successo. Si intitola When mother comes home for Christmas, cioè Quando la mamma torna a casa per Natale. E' opera di una regista indiana, Nilita Vachani e qualcuno forse lo ricorderà perché è passato attraverso vari festival italiani. Racconta la vita di Josephine, una donna dello Sri Lanka ingaggiata come bambinaia ad Atene. Josephine, in questo modo, riesce a mantenere i suoi tre figli e quando torna a casa per Natale è sempre carica di doni. Sta mettendo da parte i soldi per la dote della figlia Norma e sta pagando rate il pulmino del figlio maggiore che fa l'autista. Prima che in Grecia, Josephine ha lavorato in Kuwait e Arabia Saudita. Ha viaggiato e conosciuto il mondo, conquistando un'indipendenza inimmaginabile per sua madre. Però c'è anche il rovescio della medaglia.
Quando Josephine è partita la figlia più piccola aveva 2 anni, la stessa età della bambina di cui Joephine si occupa ad Atene. E' cresciuta senza mamma questa bambina, affidata a una zia che non ne ha saputo fare tanto bene le veci. Così, alla fine, è stata mandata in collegio, e va male a scuola e non riesce a entrare in relazione con i coetanei. Norma, quella della dote, ha tentato tre volte il suicidio. L'unico che sembra cavarsela bene è il figlio-autista, il maggiore, non a caso quello che ha avuto più a lungo la mamma vicina.
Il successo economico di Josephine ha come contraltare la rimozione dei figli. La sua storia è una storia di successo abbiamo detto, ma anche di grande ingiustizia globale e di dolore. Rusciamo a immaginare cosa significhi accudire un bambino di due anni mentre dall'altra parte del mondo c'è il nostro bambino, che ha la stessa età ed è accudito da qualcun altro? E' una lacerazione incurabile: occuparsi dei figli o dei parenti degli altri invece che dei propri, della vita degli altri invece che della propria. E' una situazione per molti versi simile a quella della senegalese Fatou, in Italia da otto anni grazie al ricongiungimento famigliare.
Fatou è arrivata piena di belle speranze presto deluse: suo marito, con lo stipendio d'operaio e i soldi che mandava mensilmente alla famiglia d'origine, non era in grado di assicurarle nessun agio. E' rimasta incinta pochi mesi dopo e ha messo al mondo una bella bambina. Quando la bimba ha avuto due anni, Fatou ha trovato un lavoro come baby sitter. Ogni mattina, prima di andare a casa di Bruno, il bambino di cui si occupava, lasciava la sua bimba a casa di una connazionale che se ne occupava in cambio della metà dello stipendio di Fatou, circa 500 euro. Andava a riprenderla intorno alle sette di sera. Dopo una anno circa di questa vita il marito ha deciso che la misura era colma. Ha portato la figlia a Dakar e l'ha lasciata alla nonna. Per inciso, questo costume di portare i figli a crescere nel Paese d'origine è abbastanza diffuso tra i senegalesi, ma in genere le mamme vanno con loro. Fatou ha continuato a lavorare, non ha più rivisto la figlia, che per un lungo periodo si è rifiutata di parlarle al telefono. A poco a poco si è trasformata in una donna piena di astio. Almeno, così la descrivono le persone che le stanno accanto. In realtà è una donna piena di dolore.
Hai paura del buio (del regista Massimo Coppola), uscito qualche anno fa, è un film in cui si intrecciano il tema del precariato e quello dell'integrazione. A un certo punto offre allo spettatore un dialogo tragico ed illuminante. La protagonista, Eva, si rivolge alla madre, che l'ha lasciata "orfana" in Romania per fare la colf in Italia. E le rimprovera la sua assenza. Per nove interminabili anni, mentre lei cresceva, aveva il primo ciclo mestruale, si innamorava, si misurava con il dolore e con le perdite (la morte della nonna, un aborto), finiva la scuola, la madre non c'era. «Sai quante notti ci sono in nove anni?» le chiede a un certo punto Eva.
Eva, come i figli di Josephine e la figlia di Fatou è un'orfana della globalizzazione. Se potessimo contare e raggruppare gli orfani della globalizzazione sparsi per il mondo ne verrebbe fuori una nazione molto popolosa. Ci sono paesi, come l'Ucraina, in cui questo fenomeno rappresenta ormai emergenza sociale riconosciuta. Per parlare del loro disagio si usa l'espressione sindrome italiana. Gli orfani della globalizzazione crescono lontani dalle madri, con sentimenti di ambivalenza, sicuramente provando a immaginare la vita della madre ma quasi sempre senza riuscire a farlo nei suoi termini reali. Perché tra chi rimane e chi parte si crea sempre questo equivoco: che lì, nel Paese ricco, la vita sia facile e comoda.
A volte, succede soprattutto nel caso dei latinoamericani, dopo un tot di anni gli orfani della globalizzazione raggiungono le madri in occidente.
A volte il passaggio è felice. Molto spesso però segna l'inizio di un nuovo dramma. I figli arrivano senza avere affatto le idee chiare su cosa sia l'occidente e coltivando comprensibili sogni di consumo. Trovano ad accoglierli una realtà diversa e in genere molto dura: spazi esigui, pochi soldi, la mamma o i genitori tutto il giorno fuori casa, un ambiente ostile e razzista. E questi ragazzi finiscono col raccogliersi nelle bande urbane che si richiamano alle pandillas latine e che riescono ad essere ugualmente feroci. A Milano e a Genova queste bande rappresentano ormai un'emergenza.
Questi ragazzi bruciano le loro vite. Le madri non riescono ad aiutarli. I giornali liquidano il fenomeno come un nuovo tipo di criminalità senza vedere l'intreccio molto stretto tra il modo in cui è organizzata la nostra società e la loro deriva.
Si dice spesso che grazie a tate, colf e badanti, le donne italiane hanno la possibilità di lavorare e fare carriera. Barbara Ehrenreich e Arlie Russell Hochschild, sociologhe americane che si occupano del lavoro femminile, in un libro di qualche anno rimasto attualissimo, Donne Globali, avanzavano una tesi originale: il sacrificio di tate e badanti asiatiche, africane, latinoamericane in realtà serve a consentire agli uomini occidentali di continuare a non farsi carico della vita famigliare. Questa lettura forse è troppo tranchant e femminista. Però è abbastanza evidente che il sacrificio delle donne extracomunitarie non stia servendo a rendere libere ed emancipate le italiane ma sia piuttosto funzionale ad inchiodarle meglio alle loro scrivanie. In fondo, mentre le immigrate non curano i loro bambini e i loro vecchi per curare quelli delle signore autoctone, queste non curano i loro bambini e i loro vecchi per lavorare. E il lavoro, a parte pochi casi felici, in Italia non rappresenta più uno strumento di emancipazione e di realizzazione. Perché sottopagato, frammentato e molto spesso vessatorio. Perché ha fagocitato il privato.
La conquista vera, per tutte le donne ma anche per la società nel suo complesso, sarebbe vivere in una situazione in cui tempi del lavoro e degli affetti trovassero un vero punto di equilibrio. Conquista sarebbe vedere riconosciuta la maternità come valore universale, da custodire e tutelare, e non come una questione di genere o uno status symbol. In Italia la maternità è da un lato mitizzata e dall'altro maltrattata. In buona parte dell'Occidente è così. Viviamo in un sistema in cui la dimensione affettiva non è riconosciuta e la logica illogica della produttività e della crescita infinita hanno il sopravvento su tutto. Un sistema traballante e insostenibile, che il sacrificio delle donne globali e egli orfani della globalizzazione tiene ancora in piedi, ma che è destinato a implodere.
Stefania Ragusa