di Roberto Napoletano

Ricordo una telefonata con Umberto Agnelli e la sua risposta a una mia domanda molto diretta: «Chi è questo Marchionne?» Il Dottore non aveva dubbi: «È l'uomo che salverà la Fiat». Aveva ragione: è gia successo due volte. La prima quando riuscì a farsi dare due miliardi di dollari da Rick Wagoner, amministratore delegato dell'epoca di General Motors, che lo fece (pensate un po') a patto di evitare di doversi comprare tutta la «moribonda Fiat».

La seconda riguarda l'operazione Chrysler: è riuscito, con i soldi degli americani, a salvare la (loro) casa automobilistica, a crescere più del mercato (il mercato va bene) e a saturare gli impianti produttivi. Soprattutto, ha risolto, in questo modo, i problemi di sopravvivenza della Fiat che non può attingere cassa dall'America (sono due società distinte) ma può consolidare i risultati e presentarsi al mercato dicendo che gli utili statunitensi coprono le perdite europee.
   
Questa volta, però, Marchionne e gli eredi della famiglia Agnelli devono fare i conti con Fabbrica Italia e la questione industriale nazionale. Tocca l'auto ma anche la componentistica e il suo indotto in genere, la meccanica di precisione e la meccanica strumentale, il cuore pulsante di un pezzo vitale di quella manifattura che fa del nostro Paese un unicum a livello mondiale e riempie una parte significativa dello stato di famiglia del lavoro in Italia.

Siamo consapevoli che l'Europa e l'Italia non sono in termini di mercato di sbocco né l'America, né il Brasile, né la Cina, dove correttamente la Fiat investe in impianti e in nuovi prodotti. Siamo ancora (più) consapevoli che esiste una seria, specifica, questione industriale che attiene al nostro Paese e ha la sua sintesi (algebrica) in una debole produttività legata a un mercato del lavoro che resta ingessato, domanda interna in frenata, prelievi fiscali e contributivi intollerabili, peso abnorme della burocrazia, standard insufficiente di servizi, e altro ancora. Siamo coscienti che la Fiat (italiana) è una società in perdita e deve, pertanto, avere una politica finanziaria accorta che permetta di preservare una riserva di liquidità tale da metterla in posizione di sicurezza in una fase di grande crisi. A chi sostiene che le (rilevanti) somme di liquidità immobilizzate costano molto di più di quanto renderebbero, Marchionne risponde che non si toccano perché rappresentano una polizza per la vita della Fiat.

Detto tutto ciò c'è, però, qualcosa che non quadra nel ragionamento accreditato: in Usa il mercato compra, in Europa e in Italia no, sempre in Usa il denaro costa meno rispetto a casa nostra, ergo non si investe in Italia per fare modelli che il mercato non comprerebbe e si evita di buttare soldi che non si potrebbero recuperare. Premesso che la situazione di mercato, anche in Europa e in Italia, resta differenziata, è evidente che se la Fiat rinuncia a creare nuovi modelli, quando il mercato si riprenderà sarà costretta a constatare che ha eroso la propria "base": avrà perso un numero rilevante di clienti che non hanno più macchine Fiat e difficilmente ne compreranno di nuove. Nel frattempo, soffrirà la rete dei concessionari che hanno bisogno di vendere auto per sopravvivere: di certo i migliori prenderanno il mandato di altre case automobilistiche. Questa è la verità.

Mi viene in mente un'altra frase di Umberto Agnelli, raccolta nei giorni tribolati dopo la successione all'Avvocato e molto netta: «È importante che ogni Paese abbia un "cuore industriale" complesso, una grande industria organizzata. La Fiat, che ha una produzione fisica di grandi volumi, una rete di vendita capillare ed è capace di interagire con diversi settori rientra in pieno in queste esigenze del Paese». Questa è la Fiat (italiana) di cui si avverte il bisogno in un grande Paese industriale qual è il nostro. Il Governo deve dimostrare, con i fatti, che la questione industriale italiana (tutta) è la questione chiave del momento perché è in gioco il futuro della manifattura e, quindi, il cuore della sua economia. Il Paese, però, è fatto anche di imprenditori che credono nel loro Paese e lo dimostrano, ogni giorno, investendo in nuovi prodotti e scommettendo sull'Italia nonostante tutto. Non vogliamo neppure immaginare che la Fiat possa decidere di non essere più tra questi.

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