La Confartigianato lombarda ha analizzato l'«impronta» femminile. «Noi non crediamo allo stereotipo dell'inconciliabilità tra business e famiglia».

di Dario Di Vico

Quando si parla di lavoro femminile ci si ferma in genere a indagare due segmenti, le dipendenti e le manager con tutto quello che ne consegue nei termini di un'agenda in cui sono dominanti welfare e quote rosa. Quasi mai l'attenzione si focalizza sulle lavoratrici autonome e in particolare sulle imprenditrici. A colmare la lacuna arriva adesso un'ambiziosa ricerca della Confartigianato lombarda («È lei il titolare?») che fotografa la loro cultura del lavoro, l'impronta che le donne danno alle imprese che guidano, le differenze con la governance maschile e il rapporto che si viene a creare con i dipendenti, i fornitori e la famiglia. E alla fine quella che emerge non è un'agenda risarcitoria ma una nuova dimostrazione della vitalità delle Pmi italiane.

Prima di addentrarsi nei risultati della ricerca vale la pena assaggiare di che pasta sono fatte le imprenditrici di cui stiamo parlando. Ecco, ad esempio, la testimonianza di una di loro a proposito dell?interruzione dell'attività causa gravidanza:

«I miei figli mi hanno permesso di lavorare fino al venerdì, uno è nato di sabato e l'altro di domenica. Ho lavorato fino all'ultimo giorno prima del parto e mi sono portata una cartelletta in ospedale con le istruzioni da dare a mia sorella».

La ricerca condotta da Ivana Pais dell'Università Cattolica di Milano ha preso in esame dieci aziende artigiane di Milano, Monza e Brianza, la metà guidata da donne e l'altra da uomini. Per ciascuna azienda sono stati ascoltati lungamente il leader, i soci e i dipendenti. Le attività di business sono in prevalenza nel campo dell'edilizia, della carpenteria, delle pulizie e dell'estetica della persona. Per lo più le imprenditrici intervistate hanno sempre vissuto nel posto dove lavorano e dove, o loro o il padre, hanno fondato l'impresa. L'età varia dai 38 ai 66 anni, sono cresciute in famiglie con un livello medio di istruzione, quasi sempre il padre era un lavoratore autonomo e la madre si prendeva cura della casa. Le nostre imprenditrici sono sposate e hanno tutte almeno un figlio (per loro il dilemma delle manager, i figli o la carriera, non si pone). Possiedono un diploma tecnico e se hanno intrapreso un corso universitario l'hanno lasciato per entrare nell'azienda di famiglia.

Le differenze cominciano a manifestarsi a seconda se abbiano fondato l'azienda o si siano inserite nell'impresa di famiglia. Le creatrici hanno cominciato prima dei 40 anni e dopo una prima esperienza da lavoratrice dipendente. Sostengono di aver avuto sempre l'esigenza di autorealizzarsi, «non sono portata a star seduta». È chiaro, ammettono, «che lo si fa anche per portare a casa il pane» ma non è la motivazione principale. Le imprenditrici di seconda generazione invece quasi sempre hanno condiviso il percorso di ingresso nell'azienda paterna con i fratelli e spesso hanno cominciato occupandosi della parte amministrativa, seppur presa in senso lato.

Le aziende guidate da donne appaiono solide, la Grande Crisi non le ha stroncate e il confronto di fatturato e dipendenti tra il 2007 e il 2011 registra una sostanziale tenuta. Le imprese di pulizia crescono, quelle legate al ciclo dell'edilizia soffrono di più. Il loro limite sta nel mercato di riferimento, sempre provinciale o regionale, mai internazionale.

Per esercitare pienamente la leadership aziendale senza snaturarsi e rinunciare alla loro identità di genere le imprenditrici fanno della vera acrobazia.

«Alle 8 porto fuori il cagnolino, alle 8.30 vengo in azienda e sto qui fino alle 11.30 perché poi vado a casa da mio padre, preparo il pranzo per il marito e i figli. Torno alle 14.30 e sto fino alle 18 o alle 19. Qualche volta fino alle 20, dipende da cosa c'è da fare».

La differenza con gli imprenditori maschi è netta: le donne («Ho due figli, devo preparare anche le borse per le attività sportive che fanno la sera»), gli uomini dopo la sveglia tendono a recarsi sul luogo di lavoro senza perdersi in compiti laterali. Non vogliono altri pensieri. Annotano i ricercatori:

«Le imprenditrici acrobate non credono allo stereotipo dell'inconciliabilità tra carriera e famiglia che tanto fa discutere le manager. Il segreto sta nei ruoli familiari che sono molto flessibili e informali e quindi consentono cose altrimenti impensabili».

Se dunque riescono a instaurare con la famiglia un proficuo rapporto di scambio, le artigiane sono riuscite anche a metabolizzare le frustrazioni derivanti dal maschilismo del business.

Il direttore di banca che le invita a tornare accompagnate dal marito, il fornitore che chiede di parlare con il padre o il fratello e lo stupore di quanti, anche senza volerlo, cadono nella domanda clou:

«È davvero lei il titolare?».

Ma non sono solo le acrobazie tra business e famiglia a segnare la differenza tra uomo e donna; secondo la ricerca la vera novità consiste nello stile di direzione.

Quante volte alle manager donne è stato rimproverato di adottare modelli maschili pur di farsi largo?

Ebbene le artigiane riescono a marcare la loro identità anche in questo caso. La leadership maschile è molto tradizionale, l'artigiano esercita un comando pieno sull'azienda, ha un rapporto con i dipendenti che, pur non paragonabile a quello della grande azienda, comunque conserva un segno gerarchico preciso. La donna no, se vogliamo si comporta alla tedesca, tende a includere. Nelle aziende rosa le risorse umane e le relazioni orizzontali sono centrali. Il noi prende il posto dell'io. Il cliente ha sempre ragione ma anche i dipendenti. Le donne incoraggiano la partecipazione, la condivisione del potere e delle informazioni. Per raggiungere quest'obiettivo alcune imprenditrici organizzano riunioni mensili o bimestrali all'interno dell'azienda.

«Penso che se sei sul lavoro otto ore, stai vicino a uno che guardi male, non gli rivolgi la parola, non è bello. Quando vedo queste cose li raduno e voglio che si parlino tra di loro».

È chiaro che uno schema da azienda-comunità applicato alle Pmi funziona come il formaggio sui maccheroni, ne accentua il profilo partecipativo, tende a mobilitare le risorse e a evitare dispersioni e inefficienze. Nel momento storico in cui si parla di reti di impresa e quindi di allargare la cooperazione fuori dal mero perimetro aziendale il modello delle imprese a conduzione rosa è particolarmente moderno. Una sorta di nuova frontiera dei Piccoli. La dimostrazione viene dal rapporto con i fornitori. Sono sempre gli stessi, stabili e la rete si è costruita nel tempo con il passaparola. Ma è pronta a evolversi. «Se ho un cliente che mi fa una richiesta a cui non so rispondere, io vado alla ricerca del fornitore che mi dia quel materiale, non dico mai al cliente che non è il mio lavoro». Siamo già dunque dentro una logica da rete d'impresa.

Oltre al merito di aver illuminato un segmento sociale poco indagato, la ricerca della Confartigianato lombarda si carica di un altro merito: può servire a dare al dibattito sul protagonismo femminile nella vita economica una seconda gamba. Discutiamo da mesi di quote rosa e la querelle non pare produrre grossi avanzamenti, anzi tende a ideologizzarsi.

Fortunatamente però i processi sociali camminano a prescindere dalle leggi e il modello partecipativo delle imprese a conduzione rosa ne è una piacevole testimonianza.

@dariodivico

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