STEFANO LEPRI
Risanare l'Italia sarà un lavoro lungo, e il mondo non ci aiuta. Le nuove previsioni economiche approvate ieri dal governo sono onestamente cupe, una scelta di verità. Confermano che l'uscita dalla recessione è lontana; i primi segni di recupero li vedremo l'estate prossima. E' purtroppo inevitabile che altri posti di lavoro spariscano.
Il piano Draghi ha salvato l'area euro dal tracollo, ma è arrivato troppo tardi per frenare una caduta dell'attività che prosegue in tutti i Paesi membri, meno grave soltanto in Germania. Negli Usa la ripresa continua a stentare, e non va bene nemmeno la Cina, il cui modello di sviluppo travolgente ormai mostra crepe difficili da rappezzare.
In questa crisi epocale, l'Italia è uno dei punti di maggiore fragilità. Le speranze non sono perdute: il ritorno in attivo dei conti con l'estero prova che di dinamismo nel nostro sistema produttivo ce n'è ancora; e delle difficoltà causateci dalla moneta comune si può probabilmente intravedere la fine. Ma, appunto, c'è ancora moltissimo da fare per rimettersi in piedi.
Si può discutere se Mario Monti potesse fare di più, o più in fretta, anche forzando la mano alla sua maggioranza. I ritardi nell'attuazione delle leggi approvate rafforzano il sospetto che a un governo tecnico la burocrazia obbedisca di meno, perché meno teme di essere punita. Un governo politico potrebbe avere i suoi vantaggi, purché si formasse sulla base di un programma chiaro, e avesse dietro un elettorato convinto. L'attuale sfiducia verso tutti i partiti non giova.
Nella campagna elettorale che sta per aprirsi, il guaio non è tanto che i partiti promettano, ma che facciano promesse sbagliate, inseguendo ciò che gli pare piaccia agli elettori che conoscono meglio. In altre parole, cercano di interpretare soprattutto i desideri degli anziani. Stanno parlando in particolare di patrimoni familiari (la casa) e di pensioni, ovvero ciò che interessa alle persone più avanti con l'età; poco o nulla di che fare per il numero crescente di giovani disoccupati.
Può anche accadere di rinchiudersi nel declino. Il Giappone lo sta facendo, ma ha risorse sufficienti per riuscirci, maggiori delle nostre. L'Italia ha invece un bisogno vitale di tornare alla crescita, perché il debito non la schiacci. Certo, le politiche per la crescita dicono di volerle tutti. Però mancano i soldi per farle nei vecchi modi (ammesso e non concesso che fossero efficaci), ossia con ampi investimenti pubblici. Solo dopo ampi passi in avanti verso l'unità politica potremo, tutti i Paesi dell'euro insieme, ritrovare i margini di stabilità necessari ad usare questo strumento.
Per crescere, e per campare tutti meglio, occorre rendere il Paese più efficiente. Di ricette a pronto risultato non ce ne sono; anche misure sulla carta buone, come detassare gli aumenti di paga legati alla produttività, hanno rischiato di tradursi in complicità di elusione fiscale tra aziende e dipendenti. Né la trattativa appena iniziata fra Confindustria e sindacati sembra in procinto di sfornare grandi novità.
Invece di promettere la fine dell'austerità, occorre che la politica elabori programmi di paziente ristrutturazione del Paese, nel settore pubblico come nel settore privato. In parole povere: se vogliamo evitare che la pressione spietata dei mercati ci costringa a guadagnare meno, dovremo riuscire a organizzarci, con il contributo di tutte le parti, per lavorare meglio. Il nostro enorme debito pubblico è compensato da elevatissime ricchezze private; la sfida politica è di saper costruire una solidarietà nel nome della quale mobilitarle.