Hanno avuto giustizia ma anche un risarcimento economico di una certa entità, le 17 ragazze nigeriane parte lesa nell'indagine Sahel.

La sentenza risale al giugno scorso, ma solo pochi giorni fa sono state depositate le motivazioni che la rafforzano e la potenziano. Sì, capita anche che in Italia ci sia "Un giudice a Berlino" per citare Brecht e che una legge utile venga rispettata fino in fondo. Una sentenza che potrebbe fare giurisprudenza e lanciare un segnale agli sfruttatori che per anni hanno lucrato e lucrano sulla tratta di giovani donne.

L'indagine "Sahel" inizia nel 2007, quando ci si comincia ad interessare della vita e del destino delle ragazze costrette a prostituirsi sulla bonifica del Tronto, la strada che collega il teramano con la provincia di Ascoli. In 17, fra le ragazze nigeriane, hanno accettato di entrare in programmi di protezione per uscire da un incubo senza fine. Le loro famiglie si erano indebitate, erano arrivate in Italia prevalentemente per via aerea e sbattute immediatamente in strada. Un nome era il loro incubo, Shegul, il loro signore e padrone. Era lui a stuprarle per primo e a gestire la rete divisa in tre cellule operative, con tre maman di riferimento. Tutto funzionava in maniera perfettamente organizzata, le maman provvedevano a gestire le ragazze, a celebrare i riti Vodou per indurle in uno stato di prostrazione totale, a controllare proventi e clienti che non mancavano.

L'Europa sognata come spazio di libertà diventava in poche ore una gabbia per schiavi in cui si passava soltanto da una misera stanza alla strada. Violenze a non finire, l'importante era che non lasciassero segni sui corpi, merce preziosa per i clienti, benpensanti maschi italiani. La vita delle ragazze dipendeva da questa capillare organizzazione che ne gestiva ogni passo, ogni attimo, che le selezionava in Nigeria, e che le smistava poi in Italia. Quelle che sono entrate in un sistema di protezione, sono state seguite da due associazioni, (On the road e Be Free) che si sono prese cura di loro, si sono spostate in altre città in attesa del processo e hanno cercato di rifarsi un progetto di vita.

A conclusione del processo il Gup de L'Aquila aveva decretato condanne per oltre 100 anni complessivi per 19 imputati, che sono stati riconosciuti colpevoli di reati quali associazione per delinquere finalizzata alla tratta,la riduzione in schiavitù, il favoreggiamento dell'immigrazione "clandestina". Ma gli avvocati delle ragazze hanno chiesto e ottenuto altro. Racconta Carla Quinto, legale di Be Free:«Le tre ragazze che ho seguito personalmente sono entrate nel "Progetto Roxanne" ed ora sono in un luogo sicuro. Per loro, dopo un passato tremendo il futuro potrebbe essere migliore. Per ora è meglio che non si espongano pubblicamente, aspettiamo che l'ultimo passo di questa vicenda venga compiuto concretamente».

È accaduto infatti che il tribunale abbia deciso di applicare la direttiva europea 36/2011 che impone un risarcimento alle vittime di tratta. Ci si richiama all'articolo 13, che impone di promuovere l'uso degli strumenti e proventi sequestrati e confiscati, provenienti dai reati di cui alla presente direttiva, per finanziare l'assistenza e la protezione delle vittime compreso il loro risarcimento. Addirittura le pretese civilistiche dei danneggiati si impongono, a norma di legge, su quelle ablative dello Stato. Ovvero ad essere sostenute debbono essere le vittime e chi le sostiene. Non era la prima volta che i legali tentavano di incastrare gli sfruttatori colpendoli nel punto più nevralgico, i loro beni, ma finora era risultato impossibile perché chi gestisce i traffici si guarda bene dal tenere proprietà e liquidi in Italia. Questa volta è andata diversamente, gli imputati avevano tranquillamente acquistato case, automobili, persino un terreno, forse certi di restare impuniti. Tutti i loro beni sono stati sequestrati e confiscati. Per queste ragioni la sentenza è riuscita a colpire in pieno.

Ogni ragazza è ora in attesa di ricevere 50mila euro come risarcimento per le violenze subite, un risarcimento che nella direttiva è definito compensation. Bisognerà attendere che si calcoli esattamente il valore dei beni confiscati per poi poter garantire alle ragazze quanto loro spetta. Impossibile tradurre in mero denaro gli anni, o forse solo i giorni passati in strada, ma è il segnale che qualcosa può accadere, che alcune battaglie si possono vincere, che lo sfruttamento a scopo sessuale può essere affrontato. Certo, ora il rischio è che gli altri sfruttatori si dimostrino più cauti nella gestione delle proprietà, ma l'azione della giustizia nel caso di cui raccontiamo, ha avuto anche la peculiarità di agire con un ottimo lavoro di intelligence che può divenire esemplare. Anche nelle 50 pagine della motivazione si riconosce in pieno l'impianto accusatorio e il valore del materiale e della ricostruzione dei fatti fornita dai legali. Anche le associazioni che hanno seguito questo lungo percorso verranno compensate per l'impegno in questa attività. Ed è assurdo comunque che si debba considerare questo un fatto eccezionale.

In Italia c'è forse una delle migliori disposizioni d'Europa per quanto riguarda il contrasto alla tratta ma spesso, troppo spesso resta inapplicata, tante le ragioni per cui ci si deve interrogare, certo è che le risorse per i progetti di sostegno a chi vuole uscire dai circuiti di sfruttamento vengono elargite in maniera insufficiente. «La vittoria dei legali specializzati sul traffico di esseri umani - hanno segnalato all'atto della sentenza On the Road e Be Free - rappresenta un fatto importante nella lotta alla tratta e nella costruzione di una società civile consapevole di quanto il reato sia grave e devastante per le vittime. Esprime un valore altamente simbolico, oltre che immediatamente monetario: riconosce come profondamente devastante il danno che deriva alle vittime dalla condizione nella quale sono imprigionate, in un momento in cui i governi nazionali e locali non sanno che esprimere politiche repressive, securitarie e di "decoro urbano" nei confronti delle cosiddette "prostitute". Che sono invece, e questa sentenza lo ribadisce, vittime di un gravissimo reato transnazionale che ne lede i diritti umani».

Forse queste ragazze avranno un futuro ma non tutte. Una di loro, Lilian non ce l'ha fatta. È morta per un linfoma non curato in tempo, quando poteva essere salvata era ancora nelle mani dei suoi aguzzini, è deceduta nell'ottobre scorso, la sua storia è stata anche raccontata nel documentario "Schiavi" di Giuseppe Laganà, prodotto da Rai Tre. Quante sono le persone responsabili della sua morte?

Stefano Galieni

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