MICHELE BRAMBILLA

In queste settimane gli scandali - che da noi sono di routine: gli italiani, diceva Flaiano, sono mossi da uno sfrenato bisogno di ingiustizia - riguardano due amministrazioni regionali: quella del Lazio, dove l'ex capogruppo del Pdl è accusato di aver fatto sparire qualche milione, e quella della Lombardia, dove si sta arricchendo di nuovi capitoli il tormentone Daccò-Formigoni.

Se si tiene conto che l'ultimo scandalo a scoppiare era stato quello della Sicilia e della sua quasi bancarotta, possiamo dire che negli ultimi mesi le cosiddette storie di tangentopoli e di malapolitica hanno riguardato soprattutto amministrazioni regionali, in un asse che attraversa tutta la Penisola: Nord, Centro, Sud. Tre storie naturalmente diverse l'una dall'altra, e non necessariamente destinate a finire con delle condanne: come sempre, deciderà la magistratura. Ma tre storie destinate comunque a disilludere tutti coloro che, da tempo, invocano il decentramento amministrativo, o federalismo o autonomia che dir si voglia, come antidoto agli sprechi, alla cattiva amministrazione, alle ruberie. Si ruba a Roma come si ruba in Gallia, questa è l'ovvia verità.

Non lo diciamo per mettere in discussione il sistema delle autonomie, che anzi ha indubbiamente i suoi innegabili benefici. Ma per mettere almeno una pulce nell'orecchio di chi si illude che i guai del nostro Paese - che da molti anni sono tanti, e non riguardano solo la violazione del settimo comandamento - possano essere risolti a colpi di riforme, di leggi, di norme, di raccolte di firme, di referendum, e così via.

Ricordate di che cosa si parlava in Italia nella primavera del 1992, a Mani Pulite da poco scoppiata? Di un referendum, appunto. Quello che avrebbe spazzato via il vero cancro della Prima Repubblica, cioè il sistema proporzionale e le preferenze. Gli italiani accorsero in massa ad approvare il nuovo sistema elettorale maggioritario. Come sia andata a finire nella Seconda Repubblica quanto a debito pubblico e moralità privata, lo sappiamo bene.

Che l'Italia abbia bisogno di riforme, è senz'altro vero. Ma la crisi di oggi - non solo italiana, ma mondiale - è una crisi soprattutto morale. È il nostro modo di vivere (per «nostro» intendendo quello di tutti noi, non solo della casta) che va ripensato. L'ha detto il Papa e l'ha detto anche il presidente Napolitano. Lo dice soprattutto l'osservazione della realtà: la vera emergenza, in Italia, negli ultimi decenni è quella educativa. Invece continuiamo a illuderci che tutto si possa risolvere con emendamenti, norme, commi e paragrafi.

Vi dice niente il fatto che in queste settimane al centro delle nostre speranze stiamo riponendo la riforma elettorale? E che con questa riforma si vorrebbero reintrodurre - tra le varie ipotesi - il sistema proporzionale e le preferenze? Cioè le stesse norme che abbiamo abrogato a furor di popolo vent'anni fa? E ancora: non avevamo forse abrogato il finanziamento pubblico dei partiti, per poi reintrodurlo? È cambiato qualcosa? E la scuola? Avete in mente quanti cambiamenti di forme, e non di sostanze, sono stati fatti in questi anni per migliorare la scuola? Siamo passati dai voti in numeri a quelli in lettere e poi ai giudizi per tornare ai voti in numeri; alla maturità una volta c'erano i sessantesimi e adesso i centesimi. Per cambiare che cosa? Avvitati su noi stessi alla ricerca di magiche «norme» o «riforme», continuiamo ad autoconvincerci che bene e male vengano dall'esterno, e non dall'interno, di ciascuno di noi. L'altro giorno Matteo Renzi, parlando a un popolo presumibilmente perplesso su quanto stava per dire, ha detto che è illusorio pensare che l'articolo 18 tuteli il posto di lavoro, perché se un imprenditore vuole (o ahilui deve) chiudere, chiude. E buona notte alle «regole».

Intendiamoci bene, altrimenti qui ci si accusa di disfattismo se non di peggio. Che le regole ci vogliano, e che debbano essere le migliori possibili, è ovvio. Quindi continuiamo a cercare di perfezionarle. Ma ricordando le parole di quella grande sovrana illuminata che fu Caterina II di Russia, per la quale «è meglio uno Stato con cattive leggi applicate che uno con buone leggi non applicate».

Noi ci spingiamo un po' più in là, e diciamo che meglio ancora sarebbe uno Stato con leggi applicate da persone oneste. Oneste nei limiti umani, s'intende, perché di immacolato non c'è nessuno: ma comunque migliori di certi impuniti dei giorni nostri. Ecco perché diciamo che la prima emergenza, per l'Italia, è da tempo quella educativa. Perché per tirarsi fuori dai guai, più che di nuove leggi, l'Italia avrebbe bisogno di nuovi uomini, molto più difficili da promulgare.

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