Ha vissuto per mesi a Termini con altri senza fissa dimora, fotografando i momenti di miseria e solitudine ma anche quelli di fratellanza e forza. Oggi il giovane Keita Mohammed studia per conseguire il diploma ed espone le sue foto alla Camera. Ecco la sua straordinaria avventura.

di LUCA ATTANASIO

ROMA - Poco meno di 8000: tanti sono i minori stranieri abbandonati a sè stessi che vivono in Italia. Una moltitudine silenziosa ma diffusa su tutto il territorio, composta in gran parte da afghani, africani sub-sahariani, marocchini, egiziani, albanesi. Il 90% di questi piccoli rifugiati sono maschi adolescenti, ma ci sono anche bambini di sei o sette anni. Di molti - 1800, per l'esattezza - non si sa niente, per le autorità sono irreperibili.

Le loro vicende, quando si riescono a raccogliere, hanno però dell'incredibile. C'è chi è arrivato a piedi dalla Moldavia, chi si è ricavato uno spazio accanto al vano motore di un camion dalla Grecia a Brindisi, chi ha investito tutti i risparmi della famiglia per passare l'Asia Minore, la Turchia, la Grecia, ogni singolo stato dell'ex Jugoslavia. Ognuno ha vicende drammatiche da dimenticare, ma anche storie meravigliose da raccontare.

È il caso di Keita Mohammed. Ad appena 14 anni, la famiglia massacrata dai ribelli in Costa d'Avorio durante la guerra civile, il ragazzo rimane solo e capisce che se vuol salvarsi la vita deve scappare. Porta con sé qualche cianfrusaglia, una macchinetta fotografica usa e getta e parte senza una meta precisa. "Avevo deciso di fuggire dal mio Paese - racconta calmo a chi lo intervista  - ma non pensavo di andare in Europa. Mi sono unito a un gruppo di ragazzini e siamo arrivati in Guinea Conakry".

Da lì continua da solo attraversando il Mali prima e affrontando il Sahara poi. Giunto in Algeria e infine in Libia, viene pescato dalla polizia e sbattuto in carcere a Tripoli, "ma dopo cinque mesi sono riuscito a scappare", dice. Con i soldi ricavati nei lavoretti precedenti alla prigione libica, Keita si imbarca per la Sicilia. Ma lo scafista sbaglia rotta e la barca si ritrova a Malta. Trascorre un anno buttato in un centro di accoglienza che è peggio di un carcere. Quando riesce a uscire, si organizza con una trentina di africani, riparte su un barcone e arriva in Sicilia.

"Noi l'abbiamo trovato con la nostra unità di strada alla stazione Termini - dice Marco Cappuccino di Civico Zero 1, il centro diurno di Save the Children 2 che opera a Roma - un ragazzino in mezzo a uomini adulti. Stava lì da più tre mesi, la stazione era diventata la sua casa, i senza dimora la sua famiglia". È qui che Keita comincia a scattare centinaia di foto ai coinquilini e che matura la sua vocazione. "Con le mie fotografie voglio denunciare la sofferenza di tanti migranti ma anche italiani che vivono ai margini e che senza la comprensione di qualcuno sono persi", racconta.

Con "J'habite a' Termini", una foto con una borsa sistemata su un immenso fagotto e un cartone - tutti i suoi averi - conquista l'attenzione di Diana Balmori, un urban designer che la espone a New York. "Dopo un tirocinio superato brillantemente - spiega Dina Stancati, il tutor che lo segue al centro di accoglienza Enea dove Keita vive - ora lavora come facchino in un albergo e studia per prendere il diploma di III media. La sua passione, però, resta sempre la fotografia".

E tutto il suo tempo libero, infatti, Keita lo passa a scattare foto o nella camera oscura di Civico Zero. Con la sua mostra "Piedi, scarpe, bagagli", alla sua terza edizione, dopo aver esposto alla Camera alla presenza del Ministro Riccardi, Keita sarà ospite di Dario Franceschini l'8 settembre alla Festa Nazionale dell'Unità di Reggio Emilia.

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