Laura Lucchini

Era il 28 agosto scorso, un martedì, nel quartiere residenziale di Schöneberg a Berlino quando il rabbino Daniel Alter, 53 anni è stato picchiato per strada mentre rientrava con sua figlia. E ora racconta: «Per me personalmente è stata la prima volta che sono stato attaccato con violenza». Però «mi è capitato più volte di dover spiegare a mia figlia perché la scritta "gli ebrei se ne devono andare" compare con frequenza sui giochi dei bambini al parco». Anche dopo questa aggressione dice : «Sì, sono tedesco, ma ogni volta che lo dico mi inciampa la voce».

BERLINO - «Ero con mia figlia in cammino verso casa, era tardo pomeriggio. Molto vicino a casa abbiamo incontrato un gruppo di quattro o cinque giovani ragazzi, apparentemente di origine straniera. Quando ci siamo trovati molto vicino uno di loro ha chiesto: "sei ebreo?" Io ho risposto. Subito hanno iniziato con una serie di insulti verso l'ebraismo in generale, ma fino a quel punto non mi avevano spaventato perché conosco questo tipo di cose. Mi sono innervosito e ho avuto paura quando ho visto che non smettevano e si avvicinavano sempre di più. Uno di loro ha minacciato mia figlia di violenza sessuale. Ho cercato di fare entrare lei in casa, e di non far vedere che avevo paura. Però non ha funzionato. Uno di loro mi si è avvicinato ancora di più, mi ha colpito al volto e mi ha rotto uno zigomo. Ho cercato di girarmi e allontanarmi, ma non ero mai stato in una situazione simile e non mi sono accorto che dietro di me c'era un'altra persona. Anche questa mi ha colpito alla testa e sono caduto. Ciò che ho visto dopo è stato solo che il gruppo si allontanava correndo. Tutto è successo davanti agli occhi di mia figlia di sette anni».

Era il 28 agosto scorso, un martedì, nel quartiere residenziale di Schöneberg a Berlino quando il rabbino Daniel Alter, 53 anni è stato picchiato per strada. In un incontro con alcuni giornalisti stranieri nella sede della stampa estera, ha ricordato gli eventi di quella sera. Nonostante la paura e il trauma, assicura che continuerà a battersi per il rispetto tra le religioni. Non pensa di lasciare la Germania, anche grazie all'enorme «ondata di solidarietà» che lo ha travolto appena dopo, però denuncia l'esistenza di luoghi e gruppi «in cui semplicemente viene sospesa la Costituzione tedesca» e interpreta questa aggressione come un «attacco alla democrazia».

Il caso di Alter implica una serie di questioni delicate della società tedesca attuale. Il rabbino sta molto attento a non sbilanciarsi, per il fatto che le indagini sono in corso. Pensa però di poter dire che per accento e aspetto, gli aggressori siano di origine straniera, più precisamente del mondo arabo in generale. Non neonazisti tedeschi, come qualcuno aveva ipotizzato inizialmente. Precisa Alter immediatamente che ha ricevuto l'appoggio e la solidarietà della comunità mussulmana.

«Per me personalmente è stata la prima volta che sono stato attaccato con violenza. Però gli attacchi verbali, le provocazioni, queste appartengono alla quotidianità delle persone ebraiche che si identificano come tali a Berlino», spiega, «mi è capitato più volte di dover spiegare a mia figlia perché la scritta "gli ebrei se ne devono andare" compare con frequenza sui giochi dei bambini al parco».

Diversi studi recenti dimostrano che in Germania esiste un antisemitismo latente, ed è un male che riguarda il 25% della popolazione. Questo significa che un tedesco su quattro cede a luoghi comuni tipici riguardo agli ebrei e la loro religione. Alter ricorda però che non è una questione solo tedesca. Sondaggi analoghi nel resto d'Europa hanno dato risultati analoghi o peggiori, come nel caso della Spagna.

Secondo il rabbino tedesco, questi fatti si collocano totalmente su un livello distinto rispetto all'aggressione di cui è stato vittima. «I miei aggressori non appartengono al 25% dei tedeschi che sono antisemiti in modo latente. A Berlino, così come in altre regioni ci sono quartieri, strade, in cui determinate sub-culture creano certe realtà che non sono compatibili con la Legge Fondamentale tedesca». Questo non vale solo per gli ebrei, «io posso tranquillamente nascondere il mio ebraismo, ma per persone che hanno la pelle nera ci sono luoghi che sono "no go zone"».

Alter menziona direttamente il quartiere di Neukölln e quello di Moabit a Berlino dove, lui non lo dice ma si sa, la grande maggioranza degli abitanti sono di origine turca e dove, a differenza di altre parti della Germania, non si può dire che il processo di integrazione abbia avuto successo. Però si riferisce nel suo discorso anche a quartieri e zone povere dell'est della Germania dove ha messo le radici in modo abbastanza prolifico, l'ideologia neonazista, che dirige il suo odio tanto verso gli ebrei come verso i mussulmani.

«Mi interessa differenziare i due fenomeni: l'antisemitismo latente è doloroso ma è per me meno grave. Si può curare con l'educazione e la cultura. L'altro fenomeno che descrivo, sarebbe a dire l'estremismo, l'antisemitismo, il razzismo pronto alla violenza che si è imposto in alcune aree, non si può curare con l'educazione», aggiunge e conclude, «in certe zone i miei diritti fondamentali non sono garantiti. Questa è una realtà della Germania».

L'aggressione al rabbino nato e cresciuto in Germania ha scatenato un movimento civico di appoggio alla presenza degli ebrei in Germania e alla tolleranza tra le religioni. Una manifestazione nei quartieri di Schöneberg e Fridenau a pochi giorni dall'aggressione ha dimostrato con certa forza di contenuti e immagini che c'è una società che non è disposta ad accettare questo tipo di violenze, e che è indubbiamente la maggioranza.

Ma rimane un sapore amaro. Si tratta del fatto che un paese che ha vissuto il nazismo e l'Olocausto ha ancora dei problemi, anche se di natura diversa, con la presenza degli ebrei. E il caso di Alter è particolarmente esemplare perché si tratta di una persona di 53 anni, nata vicino a Norimberga, da genitori sopravvissuti alla Shoah, che decisero di rimanere in Germania.

«I miei genitori sono sopravvissuti alla Shoah. Come molti dei miei coetanei in Germania sono cresciuto con genitori profondamente traumatizzati. A volte, senza volerlo, porto con me il loro trauma. Sono cresciuto in un paese che ha causato quel trauma. Al mio stesso tavolo siedono persone che sono state testimoni di tutto ciò e che a volte si aspettano da me che io le scusi. Si tratta di avere a che fare allo stesso tempo con il loro trauma storico e il loro senso di colpa, e la nostra tragedia. Per un giovane è una situazione estremamente difficile. Ho dovuto a lungo lottare con la mia identitá. (?) Però sono nato in Germania, mi sento "socializzato" qui, questa cultura è parte di me, con tutti i suoi lati positivi. Dopo tanti anni di conflitto mi viene da dire "chiaro, ho il passaporto tedesco, sono tedesco". Sì, sono tedesco, ma ogni volta che lo dico mi inciampa la voce».  

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