Eppure c'è un paese pronto anche all'ultimo gradino.

Per chi si occupa di social business, di csr e di finanza responsabile, questa estate è stata foriera di segnali interessanti. Lascia prevedere un autunno piuttosto caldo che, in prospettiva, potrebbe rivelarsi una primavera - anche italiana - per l'economia sostenibile.

Ci sono stati i segnali ufficiali della politica. L'ultimo è quello legato al varo, da parte dell'Antitrust, di un Regolamento istitutivo del rating di legalità/eticità delle aziende. Si tratta di un provvedimento che evidenzia ancora margini di miglioramento, ma che nella sua essenza rappresenta un fatto senza precedenti, e probabilmente non solo in Italia, in direzione di una moral suasion all'adozione di comportamenti sostenibili. Prima di questo, c'è stata la presentazione di una nuova proposta di legge sul microcredito. È vero, questa arriva anche in ragione della mancata effettività data alle precedenti riforme del Testo unico bancario in materia di microfinanza, ma è certo un segnale di vitalità concreta, anche in ambito parlamentare, delle forze legate a questo mondo.

Così come è un segnale importante quello portato dall'altra anima della finanza territoriale, le Mag (Mutue di autogestione), le quali sono uscite da un fisiologico isolamento per fare fronte comune e ottenere una sorta di appoggio dalle commissioni Bilancio e Finanze della Camera. Al fine di richiedere un proprio spazio ufficiale che consenta loro di non venir fagocitate da branche tradizionali della finanza. C'è chi vede queste battaglie come tentativi di preservare il proprio territorio, il proprio quartiere. Sarà anche, ma si tratta di territori e quartieri che meriterebbero maggior attenzione e incentivi all'emulazione.

E poi ci sono i segnali non ufficiali, quelli dalla cosiddetta società civile. Qui la scelta si fa allargata. Ma giusto per citare alcuni fenomeni emersi di recente: il moltiplicarsi di iniziative sulla finanza sostenibile (una su tutte, la Settimana Sri), il venire allo scoperto sulla Csr di storici brand del lusso, il muoversi nella stessa direzione di alcuni segmenti illuminati dello sport, l'impegno concreto dei grandi gruppi bancari su temi quali il terzo settore o il finanziamento alle armi, addirittura l'introduzione di codici etici all'interno delle Fondazioni bancarie.

Ma, soprattutto, dietro le quinte, una serie di segnali è arrivata da gestori di capitali, analisti, uomini della ricerca e della didattica, professionisti della sociologia, del diritto e della comunicazione. Il leitmotiv è la voglia di un cambio di passo. La voglia di trovare davvero la soluzione finale che consenta di far quadrare il cerchio: un uovo di Colombo che metta insieme l'interesse dell'investitore con quello della collettività. Perché, appunto, appena oltre il sipario, circolano capitali pronti a destinazioni che non siano solo la massimizzazione del "vecchio" rendimento. Bensì, pronti alla massimizzazione di un rendimento nuovo, si può dire: più condiviso. Appena oltre il sipario, ci sono gestori che si interrogano e immaginano progetti, ci sono avvocati pronti a proporre adeguamenti normativi, ci sono anche operatori già preparati al varo di Borse sociali.

Ebbene, cosa manca? Lo si coglie, ancora, da alcuni provvedimenti di questa estate. Il citato provvedimento Antitrust lascia trasparire evidenti lacune nella consapevolezza di cosa realmente la Csr possa rappresentare. E così l'adeguamento di Consob dei parametri di rischio su cui scegliere le società da monitorare da vicino: manca totalmente qualsiasi concetto inerente l'interazione tra azienda e ambito sociale di riferimento. Eppure, la stessa Commissione ha dato di recente più di un segnale di crescente sensibilità a tematiche Csr: si pensi alle regole sulla trasparenza degli stipendi, alle prese di posizione a favore dell'azionariato attivo, alle critiche e ai paletti imposti a certi aspetti dell'ultraliberismo di mercato.

Il problema di fondo è che resta qualche scalino da scalare. C'è ancora una parte della classe dirigente italiana, e non necessariamente la meno illuminata, che vede la Csr filtrata attraverso luoghi comuni che ne hanno inquinato la sostanza. La si interpreta ancora come un "non necessario dessert", al termine di un pranzo già faticosamente sudato. Insomma, un lusso che solo un Paese a pancia piena può permettersi.

Questo scalino è un errore di prospettiva. Parlare di sostenibilità non significa essere contro le imprese, contro le infrastrutture, contro la finanza. Significa cogliere l'opportunità di un Paese costretto a ripensare il proprio modello di economia, per cercare, appunto, una formula che renda questa economia un qualcosa di più diffuso, trasparente, condiviso. Ribaltare ogni luogo comune, e trasferire concretamente il concetto che imprese, infrastrutture e finanza non sono contro, bensì saranno a favore, se non addirittura saranno in qualche modo "proprietà condivisa" del territorio.

Non si può non cogliere l'occasione. Per evitare di perdere anche questo treno nei confronti internazionali. La Ue, per esempio, stima che ormai un 10% del Pil continentale sia da imputare a "imprese sociali". E nell'ultimo anno ha attivato una serie di misure e programmi per favorire la costituzione di "fondi di investimento sociali" al fine di sostenere il "social business".

E l'Italia? L'Italia dall'imprenditoria diffusa, l'Italia dei distretti produttivi, l'Italia delle filiere, l'Italia del volontariato pari al 4% del Pil, l'Italia delle Mag e del Microcredito e delle assicurazioni etiche, l'Italia che si prepara a organizzare un'Expo 2015 concettualmente fondato sulla sostenibilità del pianeta, ebbene, a quest'Italia continua a mancare l'ultimo gradino.

Nel provvedimento del Governo sulla crescita per il rilancio del Paese si è parlato di start up e rinascita digitale. Viceversa, non è pervenuto il social venture capital. La vera partita dei prossimi mesi, perciò, sarà quella di dare voce a quel mondo dietro le quinte che, invece, era ed è pronto a scommettere su un investimento. Di ventura, certo, ma con rendimento diverso.

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