Federica Dato

Uno dei paradossi della nostra disoccupazione è che in alcune professioni fondamentali non manca il lavoro ma il personale. È il caso degli infermieri. L'anno passato Ipasvi (Federazione nazionale collegi infermieri professionali), stimava servissero circa 22mila posti per le nuove immatricolazioni. Le Regioni sottolineavano un fabbisogno di altrettante unità. Le richieste di immatricolazione erano state circa il doppio, eppure le università hanno accolto circa 16mila studenti. In Italia il rapporto infermieri-abitanti si arresta sul sette a mille, contro la media Europea che supera il nove.

Gli infermieri italiani sono nel mezzo di una battaglia, una di quelle difficili perché da combattere su più fronti. Il primo è quello interno, che ha a che fare con una spaccatura profonda tra gli infermieri di nuova generazione e chi le corsie ospedaliere le frequenta ancora ma di atenei non ne ha visti. Il secondo li vede soli contro il resto del personale sanitario che, spesso, tenta di arginare la crescita di una professione che inevitabilmente frantumerebbe iter e poteri consolidati.

Poi viene quello burocratico, fatto di norme e contratti che non sanno andare di pari passo e che arrivano in ritardo, con anni di ritardo. A chiudere il cerchio ci pensa infine l'immagine, la percezione che i cittadini hanno di una professione di fatto cambiata. L'incapacità di una categoria di farsi pesare può diventare un problema e in Italia, nel caso di quella infermieristica, lo è da tempo. Le contraddizioni, lo sviluppo e i limiti che l'abbracciano e l'investono stanno tutti in una fotografia: il caso di cronaca esplode e per raffigurare l'infermiere (che questo abbia torto o ragione) i media nazionali propongono, a volte, l'immagine di una donna delle pulizie. Il camice lo ha anche lei, così come gli zoccoli, e cadere in errore è gioco facile. Ma è esattamente in quella semplicità, in quello sbaglio che notano pochi, che è possibile leggere la distorsione di un mestiere in divenire.

Oggi laureati, meglio se freschi di master e specializzazioni, gli infermieri si spaccano a metà. Divisi tra chi vorrebbe maggiori riconoscimenti da abbinare a una superiore assunzione di responsabilità e chi, attento alla busta paga che verosimilmente resterebbe immutata, oppone resistenza a quelli che sembrano irrinunciabili passi avanti.

Questo viaggio nel mondo infermieristico inizia dalle criticità della professione. La carenza di personale impone carichi di lavoro eccessivi, turni al limite della legalità. L'anno passato Ipasvi (Federazione nazionale collegi infermieri professionali), stimava servissero circa 22mila posti per le nuove immatricolazioni. Le Regioni sottolineavano un fabbisogno di altrettante unità. Le richieste di immatricolazione erano state circa il doppio, eppure le università hanno accolto circa 16mila studenti. Numeri che si affiancano alle altre cifre, quelle che fanno media stabilendo che in Italia il rapporto infermieri-abitanti si arresta sul sette a mille, contro la media Europea che supera il nove.

La difficoltà ad articolare un vero sviluppo nella carriera, nonostante i recenti interventi normativi, permane. La nascita di figure intermedie, di coordinamento e gestione del personale infermieristico o di reparto, rimane eccezione legata alle scelte dei singoli ospedali. Le basse retribuzioni, che non tengono presente la preparazione che ora si richiede a un infermiere, portano infine alla rottura tra chi ambisce a fare di più, anche con compensi inadeguati, nell'idea che questo sia il viatico per l'affermazione di un ruolo e un peso nuovo della professione all'interno delle strutture sanitarie e il resto della categoria, che guardando al quotidiano, a questi si oppone con forza.

Annalisa Silvestro, presidente nazionale Ipasvi, parla di «prima grande svolta» tornando agli anni '90, quando furono «istituiti i corsi di laurea di primo e secondo livello e magistrale». Il riconoscimento della «professione sanitaria di carattere intellettuale, non più subordinata al medico ma responsabile unica del processo di assistenza, arrivò con la ridefinizione normativa del '99, 2000 e 2001».

Una classe dirigente nata una manciata di anni fa accende nuovamente il dibattito nazionale intorno alla rivoluzione che potrebbe cambiare il volto dei nostri ospedali. Il nodo cruciale, specie per gli infermieri, si chiama riorganizzazione degli ospedali per complessità assistenziale. Un saluto alle unità operative, alla divisione dei posti letto in base a patologia e disciplina medica, per passare alla suddivisione per aree in cui si aggregano i pazienti secondo la gravità del caso. La gestione dei letti in mano al corpo infermieristico, l'esigenza di liste d'attesa cristalline, la ridistribuzione delle risorse e minor sprechi. Il malato non va dal medico, è il medico ad andare da lui.

È questa la seconda grande svolta, per Silvestro: «Gli ospedali organizzati per patologia non reggono più. Ovviamente la suddivisione per livelli di professionalità ed esigenza assistenziale sarebbe una spinta in avanti. I letti non sono più di nessuno, tornano a essere dei pazienti e gestiti dagli infermieri. Un cambiamento culturale e non solo». Alcuni primariati tagliati, piccoli fortini sgretolati e parecchie resistenze da lottare: «Gli stipendi sono bloccati, questa crisi non ci aiuta. Le logiche contrattuali non hanno seguito quelle normative e le diversificazioni di funzioni in ambito infermieristico sono pochissime. Siamo economicamente appiattiti verso il basso e caratterizzati da livelli di istruzione diversi».

L'omologazione del servizio è un problema che i vertici Ipasvi, così come il ministero della Salute, si trova ad affrontare. «Dire che il più è fatto, che all'interno della categoria non ci siano anime diverse, sarebbe mentire. Ma siamo sulla strada giusta». Nel frattempo le tensioni si spostano nei tribunali, che, ad esempio in Toscana, hanno visto medici tentare di ricondurre gli infermieri a un ruolo subordinato, rifacendosi all'accordo tra il ministero della Salute e le Regioni datato ottobre 2001: "l'infermiere opera sotto la supervisione del medico in servizio, responsabile dell'attività, e secondo protocolli definiti". L'impressione è che questo sia solo l'inizio di un dibattito ancora lontano dal trovar conclusione.

Circa 1.300 euro al mese, potendo raggiungere un massimo di 2.500, e una serie di voci (come l'indennità di funzione, di risultato, lavoro notturno, straordinari e si potrebbe andare avanti?) a complicare i conti. L'ingresso della formazione in ambito universitario e pochissimi infermieri diventati docenti. Il passaggio dai 170mila infermieri di vent'anni fa agli oltre 360mila odierni. Tutto questo racconta una professione dai tanti profili, i cui destini riguardano l'intera organizzazione sanitaria nazionale. Il mondo infermieristico nostrano sta cambiando, è già cambiato, e non c'è rivoluzione, specie in Italia, indolore. Gli infermieri oggi si spaccano. La vittoria di una o dell'altra corrente, quella innovativa o quella dei "conservatori", dipende probabilmente da ciò che accadrà al resto della sanità, quella in cui e di cui vivono.

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