Mentre le aziende italiane chiudono, quelle in mano agli immigrati continuano ad aumentare e ora contribuiscono al 5,5% del Pil.
di Massimo Morici
Gli italiani chiudono baracca, gli stranieri la riaprono. Potremmo sintetizzare così il risultato delle ultime rielaborazioni della Fondazione Leone Moressa, uno dei centri studi più autorevoli nella misurazione del peso economico degli immigrati in Italia, che presenterà a ottobre il corposo Rapporto sull'Economia dell'Immigrazione, giunto alla seconda edizione.
Due cifre su tutte rappresentano questo trend: le imprese straniere, nonostante la crisi hanno chiuso il 2011 con un saldo positivo di oltre 26.000 unità, mentre quelle italiane nello stesso periodo sono diminuite di 28.000 imprese.
In tutto il 7,4% delle imprese operanti in Italia sono condotte da cittadini stranieri, pari a 454.000 imprese attive soprattutto nel commercio, nell'edilizia (ormai nelle costruzioni più di un'impresa su dieci è condotta da uno straniero) e nei servizi.
Un esercito che nel 2011, sempre secondo la Fondazione Moressa, ha prodotto circa 76 miliardi di euro, pari al 5,5% dell'intera ricchezza prodotta a livello nazionale (più generosa l'ultima stima della Caritas che parla di un peso pari all'11% del Pil). La cifra, tuttavia, potrebbe essere maggiore, considerando il sommerso che pesa per circa il 17,5% del Pil in Italia e che è assai diffuso anche nell'imprenditoria straniera.
Di tutto questo denaro, per lo meno di quello rintracciabile, visto che le rilevazioni della Fondazione si basano sui dati delle varie Camere di commercio, quanto ne rimane alla fine in Italia? Per farci un'idea, dovremmo togliere dai 74 miliardi almeno un 10%, ossia 7,4 miliardi che se ne vanno in rimesse, aumentate del 12,5% nel 2011 rispetto all'anno precedente.
Si tratta, in media, di circa 1.618 euro all'anno inviati da ogni straniero al proprio paese e destinati per lo più in Asia e in Cina, tanto che la Fondazione stima che i cinesi residenti in Italia riescano a mantenere una città grande più o meno come Palermo (800.000 connazionali) in patria.
Il resto di quella ricchezza prodotta, circa 70 miliardi, rimarrebbe quindi in Italia, dove se ne va in consumi, affitti, bollette, rate da pagare e, ovviamente, tasse. Almeno si spera.