di Alberto Dentice
Non solo le tre ragazze anti-Putin. Molti artisti nel mondo usano le canzoni contro i regimi. E hanno un potente alleato: YouTube.
Ci volevano le "Pussy Riot" per ricordarci che in Russia la libertà di espressione ha dei limiti? Per smascherare la cronica allergia di Putin dei confronti della critica e della verità non bastava forse la lunga lista dei giornalisti uccisi o scomparsi da quando il nuovo Zar è alla guida del Cremlino? Vi dicono qualcosa i nomi di Anna Politovskaja e Natalia Estemirova? Certo gli omicidi, con il loro corollario d'impunità e processi farsa, non sono così semplici da far conoscere e lanciare su You- Tube come i video di ribalda immediatezza punk.
Ben vengano dunque le Pussy Riot. Anche perché, al di là dell'opinione che ci si è fatta sulla loro performance, la sentenza tutta politica - due anni di carcere - che ha colpito Nadezhda Tolokonnikova, Yekaterina Samutsevich, Maria Ayokhina, trasformando le tre bambinacce incappucciate (ma nel video non se ne vedono cinque?) in un'icona globale della lotta per la democrazia ci rammenta un'altra verità non meno importante. Ci ricorda che la musica è un'arma potente, l'unica capace di attraversare lingue e culture. "Get Up, Stand Up. Stand up for Your Rights!", alzati e combatti per i tuoi diritti, proprio come cantava Bob Marley, in quella canzone diventata l'inno di milioni di ragazzi che aspirano a una società più giusta. Un'arma di denuncia temuta e terribilmente scomoda specialmente in quei paesi dove i diritti umani e la libertà di espressione sono tabù o comunque "optional" sgraditi al regime di turno.
La Storia riserva esempi in abbondanza in proposito. E non pensiamo solo agli anni oscuri di Zdanov o alle purghe staliniane in cui pare averci precipitato di nuovo l'abnorme condanna subita dalle Pussy Riot. Tornano in mente anche le vicende drammatiche vissute tra gli anni Sessanta e i Settanta da musicisti come Miriam Makeba e Hugh Masekela costretti all'esilio nel Sudafrica dell'apartheid; quelle di Caetano Veloso, Chico Barque e gli artisti del movimento "tropicalista" costretti a fuggire dal Brasile negli anni della dittatura militare; e ancora alla prigione e alle brutali torture subite da Fela Kuti da parte della polizia e culminate con l'omicidio della madre a causa delle liriche incendiarie con cui il re dell'afrobeat prendeva di mira il neocolonialismo e la corruzione imperante nella Nigeria del generale Obasanjo. La lista potrebbe continuare a lungo. Internet all'epoca non esisteva. Le notizie scarseggiavano. E ci sono voluti anni prima di rendersi conto che quel personaggio scomodo e carismatico, chiamato "The Black President", fosse in realtà l'eroe degli oppressi e degli emarginati di un continente intero.
Oggi qualsiasi Carneade postando il suo videoclip su YouTube rischia di diventare in un batter d'occhio una celebrità a livello globale. E ciò vale anche per la cosiddetta canzone di protesta. Anche in questo Internet si conferma un'arma a doppio taglio. Le bufale sono sempre in agguato. Ma in certi contesti geopolitici anche solo tentare attraverso la musica di educare le emozioni, di formare individui in cui la solidarietà e la compassione possa prevalere sull'individualismo o semplicemente parlare d'amore e di libertà, rischia di costare un prezzo molto alto.
La tragica fine toccata agli algerini Cheb Hasni e al cantautore cabilo Matoub Lounés trucidati entrambi, negli anni Novanta, dai fondamentalisti islamici del Fis è solo un esempio tra i tanti. Sono trascorsi più di vent'anni da allora. Ma il potere della musica continua a far paura a molti. Non dimentichiamoci che anche oggi in Pakistan e in Afghanistan, nelle aree controllate dai talebani, il solo il fatto di possedere uno strumento può costare la vita. Persino ascoltare musica è considerato un peccato da punire con la morte: come è successo ai 15 uomini e alle 2 donne che, per questo, sono stati decapitati a Musa Qala, a sud di Kabul, domenica scorsa.
Anche Amnesty International ha lanciato l'allarme: solo negli ultimi mesi, i musicisti incarcerati o a rischio di tortura sarebbero una decina. Ma altre decine, si stima, sarebbero i casi sommersi o non pervenuti. Il pretesto è spesso identico: offesa alla religione. Ma la motivazione è sempre politica. Fra le segnalazioni di Amnesty spicca il caso di Alì Jamal, un rapper azero ventiquattrenne finito in carcere a Baku assieme al bassista della sua band, per aver preso parte lo scorso marzo a una manifestazione anti governativa.
L'arresto però è avvenuto in estate nel corso del festival di Eurovision, una kermesse canora finanziata e fortissimamente voluta dall'attuale autocrate dell'Azerbaijan, Ali Hasanov. Il rapper avrebbe approfittato dell'occasione per rimarcare davanti a milioni di telespettatori lo spaventoso record di violazioni dei diritti umani perpetrate nell'ex Repubblica sovietica. Via Skype da Berlino, dove è rifugiato attualmente, Jamal ha raccontato al "Guardian" di essere stato pestato a manganellate per quel che ha detto e di aver perduto anche la casa demolita dalla polizia. Qualche ora prima di prendere il volo per Berlino, via Istanbul, il rapper ha postato su YouTube l'ultimo video della sua band, Bulistan. Dove si vede un Ali barbuto che canta aggirandosi tra le macerie della sua abitazione distrutta.
"La musica è un'arma potentissima, capace di attraversare lingue e culture. Il potere lo sa e per questo la teme".