di Boris Sollazzo
Alberto Barbera ha scelto il film di Mira Nair per aprire il primo festival della sua seconda direzione a Venezia. E la scelta, al di là dell'effettiva qualità dell'opera, è significativa, per argomento e forza dei contenuti.
E come l'ultimo Müller scelse per aprire la sua ultima edizione al Lido la politica pericolosa de Le idi di marzo, così lui punta il dito contro un'altra "perversione" occidentale, l'esportazione della democrazia. The reluctant fundamentalist, tratto dal bel libro di Mohsin Hamid (anche cosceneggiatore del film), fin dal titolo ci propone un doloroso ossimoro dei nostri tempi, una contraddizione terribile dentro chi non ha mai pensato alla violenza come forma di ribellione e ha finito per doverla percorrere come unica strada. O forse no.
Mira Nair, fin da Monsoon Wedding- che le valse il Leone d'Oro-, ha sempre scelto come modalità visiva e narrativa una patinata commistione tra stile occidentale di racconto e un'estetica che ammiccasse all'Oriente. Una sorta di etnico radical chic, un cinema che vuol essere popolare e raffinato e che, di fatto, ha realmente abbandonato solo con il biopic Amelia. Un percorso cinematografico, il suo, che poneva il dialogo tra i due mondi e le due culture, all'interno della quotidianità, come esigenza e curiosità primaria.
E dev'essere questo il motivo per cui è stata sopravvalutata, proprio per l'interesse che riveste la direzione in cui guarda, più che per la forza effettiva del suo sguardo. The reluctant fundamentalist è il punto di rottura di un percorso che era stato sempre conciliante, alla ricerca di una sintesi, di una speranza. Qui persino Mira Nair sembra aver capito che la possibile dialettica Oriente-Occidente è ormai conflitto aperto, violento, disperato. E lo mette in scena con il dialogo-intervista-interrogatorio-confessione tra Riz Ahmed, ex analista di successo a Wall Street e ora professore universitario in Pakistan, e Liev Schreiber, giornalista che da 7 anni vive nel suo paese e ha intervistato Massoud prima della sua morte.
Due uomini che hanno avuto l'11 settembre come bivio e scelte inevitabili come sentieri di vita. Un Riz Ahmed in gran forma- già visto in The Road to Guantanamo, Four Lions, Trishna- si fa voce fuori e in campo per ripercorrere, come già fece, in un film "specchio" Shah Rukh Kahn in My name is Kahn di Karan Johar, come è cambiato il mondo dopo l'attentato alle Torri Gemelle.
Come due mondi diversi ma ormai vicini siano stati strappati a quel faticoso e forse illusorio terreno comune che stavano trovando. Changez e Bobby Lincoln - nomi interessanti: il nome pakistano sembra volersi richiamare al verbo inglese "cambiare", quello americano ricorda Bobby Kennedy e Abramo Lincoln, forse i due politici più "rivoluzionari" degli Stati Uniti- giocano una sorta di partita a scacchi fatta di ricordi e informazioni, per dirci perché si fanno certe scelte. E quanto è facile che si abbandoni il giudizio ponderato per il pregiudizio sconsiderato. Ahmed è bravissimo a interpretare il filoamericano devoto al dio denaro, il felice ed esotico prodotto del sogno americano, così come il disilluso idealista che vuole cambiare il mondo che lui stesso ha cavalcato (peccato solo per il momento della scelta, davvero giocato male). Mira Nair per una volta non cerca di piacere a tutti, ma di sbattere in faccia la verità e lo fa con il consueto stile lineare e didascalico. Ma se in passato questo era segno di una debolezza creativa, qua probabilmente è figlio di una necessità divulgativa. "Abbiamo toccato tutti gli argomenti su cui si poggiano le contraddizioni del nostro mondo.
La religione l'abbiamo solo sfiorata perché mi interessava raccontare, attraverso un solo uomo, quanto il fondamentalismo, da una parte e dall'altra, stia demolendo tutto: amicizie, cultura delle differenze, rispetto reciproco, prospettive di progresso e comprensione. Da una parte c'è il fanatismo "economico", la devozione ai soldi del primo Changez, dall'altra quello religioso, che il secondo Changez capisce di dover combattere- ma capire- come ha fatto con il primo". E così The reluctant fundamentalist, anche grazie alle belle partecipazioni di Kiefer Sutherland (mentore del ragazzo d'oro pakistano a Wall Street) e di una meno in forma Kate Hudson (la sua fidanzata U.S.A.), non è un bel film - essendo troppo carico di schemi e di una visione patinata e piatta-, ma è una bella storia. Che può insegnare a molti cosa ci sta succedendo. E come. E in questo mondo qua, purtroppo, può bastare. Anzi, deve.