"Al mio Paese. Sette vizi. Una sola Italia" (Pensierolento) di Melania Petriello, è un affresco dell'Italia e dei suoi caratteri, tratteggiati da nove giornalisti che, seguendo l'itinerario dei sette vizi capitali, intendono scuotere questo Paese sornione fino all'abulia, furbo fino alla stupidità.

MELANIA PETRIELLO

"AL MIO PAESE. SETTE VIZI. UNA SOLA ITALIA"

(PENSIEROLENTO; 138 PAG.; 20 EURO)

Qual è il filo rosso che unisce il carosello di vicende italiche dalla clinica degli orrori di Ilio Spallone al mai ben chiarito omicidio di Pasolini? E quale il colera a Napoli degli anni '70 con l'incantevole spia di Benso di Cavour in Europa che tra le lenzuola ottenne più risultati di dieci divisioni e una finta indagine giudiziaria sulla morte di Monna Lisa? Nessuno, apparentemente. In realtà,

"Al mio Paese. Sette vizi. Una sola Italia" (Pensierolento) di Melania Petriello, è un affresco dell'Italia e dei suoi caratteri, tratteggiati da nove giornalisti che, seguendo l'itinerario dei sette vizi capitali, intendono scuotere questo Paese sornione fino all'abulia, furbo fino alla stupidità. Un Paese che, è l'affilata critica della vulcanica Petriello, "ha smesso di interrogarsi, è ripiegato su se stesso, non anela e non ricerca alchimie, dove gli intellettuali e i giornalisti da tempo non fanno più un dibattito serio".

Nel paese per vecchi - l'Italia può perfino parafrasare McCarthy - questo libro è la voce dei giovani. La Petriello ha chiamato a raccolta amici e colleghi perché ne pennellassero una vicenda, un tratto in modo né giornalistico né narrativo. La voce è un po' confusa ed eterogenea, con linguaggi non ancora intelliggibili, ma è una voce corale.

Senza battere pugni sul tavolo o accontentarsi di una comparsata a un tavolo di vip. Perché non si tratta di giovani qualunque: né bamboccioni né geni, non indolenti e non parassiti, sono i giovani che a forza di collaborazioni e stage, a colpi di seminari e insistenze, sudando e guadagnando per la sopravvivenza o poco più, si sono ritagliati una nicchia in quella redazione, nell'emittente pubblica, in un comitato politico. Una scossa dal basso, dal tronco, per far cadere dai rami i frutti e far germogliare nuove idee e possibilità. Più pragmatici e meno corrotti dei padri, questi autori di 30, 40 e 50 anni sono le energie che il Paese non sa intercettare, non sa far sprigionare, e che dunque senza spintonare troppo si prendono il proprio spazio, indifferenti alle insolenti discriminanti Nord-Sud, incuranti degli infingimenti 'post' qualcosa. Privi anche di un comodo nemico al quale attribuire sempre ogni male del mondo, ragione per ogni disimpegno. Dunque, non 'contro' ma 'per'.

Autentici e consapevoli; deve essere per questo che ci hanno messo la firma (e la faccia) un giornalista di esperienza come Franco di Mare (prologo) e uno storico come Fabrizio Dal Passo (epilogo). Il risultato del progetto - che sfocia anche in un cortometraggio e in un lavoro teatrale di prossima messa in scena - è a momenti poco chiaro, con la incontenibile e suggestiva scrittura onirico-poetica della Petriello intesa a intrecciare più che a svelare, a illustrare.

Ma è invece ben specificato ciò che è oltre il riquadro tipografico: il rifiuto della cultura della sopravvivenza, della mediocrità. Il racconto di storie nostrane che ciclicamente vanno a inchiostrare spazi di giornali altrimenti bianchi, qui non sono reiterazioni da ombrellone ma provocazioni per stimolare temi più urgenti e concreti.

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