È il paradosso dell'overdose da informazioni scientifiche: dimentichiamo anche ciò che sappiamo. E i libri sulla nuova ignoranza diventano un caso.

PIERO BIANUCCI

Da anni ci dicono che la nostra è la società della conoscenza. Forse, con un salutare rovesciamento del punto di vista, è ora di tornare a occuparci dell'ignoranza. Pioniere fu Celentano con il suo cd del 1991 Il re degli ignoranti , dieci tracce una delle quali è intitolata La più migliore. Ma la sua era, come sempre, una provocazione ambigua. Proclamandosi ignorante, Celentano si sentiva depositario di una cultura superiore per la sua ingenuità, la cultura del bambino della fiaba di Andersen che, ignaro dell'alta moda, grida Il re è nudo !. Poi l'ignoranza è diventata un genere saggistico, e ultimamente una fabbrica di best seller. Bollati Boringhieri ha appena pubblicato Le cose che non sappiamo: 501 casi di comune ignoranza , in Inghilterra strepitoso successo di William Hartston, che non è uno scienziato ma un campione di scacchi, un presentatore televisivo, psicologo e matematico dilettante, e soprattutto uomo curioso. L'Einaudi, la colta Einaudi, iniziatrice del genere, è ora in libreria con Il secondo libro dell'ignoranza di John Lloyd e John Mitchinson, due giornalisti e autori tv diventati famosi nel 2006 con Il libro dell'ignoranza e, nel 2008, con Il libro dell'ignoranza degli animali .

Poiché non tutte le ignoranze sono uguali, conviene tentarne una classificazione parafrasando Confucio. Esistono cose ben note, che sappiamo (pensiamo?) di sapere, e va bene. Esistono cose ignote, che sappiamo di non sapere. Ed esistono cose che non sappiamo neppure di non sapere. In questo caso ignoriamo la nostra stessa ignoranza, siamo agli antipodi di quella che per Socrate era la vera cultura, cioè il «sapere di non sapere». Ma si può andare oltre Confucio. Esistono cose che siamo certi di sapere e invece sono sbagliate. La scienza procede smascherando questi errori. Ancora: esistono cose note e corrette che non sappiamo più di sapere. È l'effetto paradosso dell'overdose di conoscenza scientifica. Oggi gli scienziati sono i primi a non riuscire più a tenere sotto controllo le troppe conoscenze.

Tempo fa un matematico si divertì a calcolare quando il volume di tutte le riviste scientifiche avrebbe superato quello della Terra. Poiché la crescita delle pubblicazioni è esponenziale, il risultato fu che sarebbe bastato meno di un secolo. Quel matematico aveva poca fiducia nella scienza e meno ancora nella tecnologia: le memorie elettroniche hanno risolto il problema comprimendo migliaia di libri in chip grandi come una moneta.

Il problema però rimane sotto un'altra veste. Oggi, spiega Hartston introducendo i suoi 501 casi di comune ignoranza , si pubblicano 300 mila periodici accademici con cadenza settimanale, mensile, bimestrale etc. In totale queste pubblicazioni superano in un anno i 3 milioni di copie e «se consideriamo per ogni numero una media di dieci articoli, ciascuno dei quali annuncia risultati precedentemente sconosciuti, questo significa che le nostre conoscenze aumentano annualmente di oltre 30 milioni di informazioni, vale a dire più di sei al secondo». Troppe.

Una immagine classica rappresenta la conoscenza come un'isola in continua espansione in mezzo all'oceano dell'ignoranza. La superficie dell'isola - ciò che sappiamo - cresce, ma insieme si allunga inevitabilmente la sua linea di costa, cioè il confine con ciò che non sappiamo. Bene: la metafora dovrebbe essere aggiornata in senso pessimistico: più l'isola si espande, più chi la governa - scienziati, intellettuali, politici - ne perde il controllo. È come se nell'isola si formassero stagni sempre più vasti di nuova ignoranza. Ignoranza di cose che per un po' abbiamo saputo e ora non sappiamo più di sapere. L'isola della conoscenza si trasforma in una laguna. Piena di lacune.

Hartston ha il buon gusto di non avventurarsi in faccende metafisiche, non lo sfiora la «dotta ignoranza» del filosofo Niccolò Cusano. Ha il dono di scovare l'ignoranza anche in cose banali. Per esempio: da che cosa ha origine la risata? Tecnicamente è una costrizione della laringe causata dall'epiglottide, ma non si capisce perché ciò dovrebbe accadere quando ci stiamo divertendo, fatto in sé tutto mentale. I biologi hanno cercato un valore adattativo: la risata avrebbe una utilità sociale. Prove però non ce ne sono. Misterioso è anche il bacio. Una ipotesi è che sia un modo per assaggiare il partner e verificare che possa fornire una prole sana. Un'altra si rifà a un'epoca in cui le madri premasticavano il cibo per poi passarlo ai neonati bocca a bocca. Oscuro è lo sbadiglio: serve a introdurre ossigeno nei polmoni o a raffreddare l'interno del nostro corpo? Mal compresa è l'origine dei fiori, già definita da Charles Darwin «un abominevole mistero». Si spera di risolverlo analizzando il Dna di una pianta chiamata Amborella trichopoda che vive nelle foreste pluviali della Nuova Caledonia. I suoi minuscoli fiori giallo-verdi sarebbero l'anello di congiunzione tra le gimnosperme e le più evolute angiosperme.

Talvolta la tecnologia permette di rimuovere vecchie ignoranze. Il moscerino della frutta per i biologi è uno studiatissimo modello animale: gli dobbiamo gran parte delle conoscenze genetiche. Eppure fino a poco tempo fa nessuno sapeva perché i maschi avessero sull'organi di riproduzione ciuffi di peli uncinati apparentemente privi di qualsiasi funzione. Per capirlo sarebbe stato necessario radere le minuscole setole e osservare le conseguenze. Ma non esisteva un rasoio per peli così microscopici. Nel 2009 ricercatori dell'Università della California hanno pensato di usare un laser per radere la parte intima dei moscerini. Confrontando le prestazioni sessuali di maschi rasati, non rasati e parzialmente rasati, si è compreso che quel pelo funziona come un velcro: aiuta il maschio a tenersi ben attaccato alla femmina. Non sarà una grande scoperta, tuttavia il confine dell'ignoranza è stato spinto un po' più in là. Quindi si è allungato. Proprio nello stimolo a conoscere sta il bello dell'ignoranza.

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