Le donne sono una risorsa fondamentale per lo sviluppo dell'economia del nostro Paese. Eppure sono ancora troppi gli ostacoli che impediscono una loro rappresentanza significativa nell'universo delle PMI.

di Flavio Calcagno

Essere donna è già un'impresa, riuscire ad esserlo oggi all'interno di un'impresa italiana è una doppia impresa. Non è un semplice gioco di parole ma una triste realtà. Divise tra lavoro e famiglia, con le relative difficoltà di conciliazione dei ruoli di lavoratrice, madre e moglie, le donne si ritrovano spesso costrette a dover scegliere tra il ruolo di mamma a tempo pieno e quello di lavoratrice. Una scelta non facile, soprattutto quando lavoro e famiglia costituiscono valori fondamentali nello stile di vita di una donna. In questo caso, per potersi realizzare appieno, la donna è costretta a crearsi una rete privata di supporti e di aiuti, cercando di coinvolgere le persone più vicine: familiari, parenti, amici, data la latitanza di agevolazioni sia a livello pubblico che privato.

Una conciliazione ardua che rischia di costringere tante donne capaci e che amano lavorare a lasciare il posto di lavoro per badare alla famiglia. Non a caso, tra i motivi di abbandono del posto di lavoro da parte delle donne al primo posto, per il 40% c'è la volontà di curare la famiglia, mentre è solo del 3% la percentuale dei padri che fa la stessa scelta.  Questo è quanto emerge da uno studio dell'Isfol condotto su un campione rappresentativo delle donne italiane in età compresa tra i 25 e i 45 anni. A  fronte di un "modesto recupero" generale del mercato del lavoro, l'indagine ha registrato un ulteriore peggioramento per le giovani donne, con  45 mila occupate in meno rispetto alla media dei primi tre trimestri.

Le cause principali? Innanzitutto la carenza di servizi. Stando a quanto sostiene il Cnel, "il sistema italiano non fornisce servizi alla famiglia e di conciliazione, di conseguenza le donne non entrano nel mercato del lavoro o ne escono dopo il primo figlio o per assistere parenti anziani". Basti pensare che alla luce della ricerca presentata da Cnel nel corso degli Stati generali sul Lavoro delle donne, "tra le donne in età compresa tra i 25 e i 45 anni, dopo la nascita di un bambino il tasso di occupazione femminile passa bruscamente  dal 63% al 50%, per crollare ulteriormente dopo la nascita del secondo, evidenziando come il ruolo femminile nel mondo del lavoro sia sacrificabile alla cura dei figli e all'attività domestica".

Ma gli affetti non sono l'unico motivo di riduzione dell'occupazione femminile. La ricerca fa notare anche come ci sia "una buona parte delle ex lavoratrici che dichiara di aver dovuto terminare l'attività lavorativa per cause non volontarie", ovvero per la scadenza di un contratto a termine o stagionale (17%), il licenziamento o la chiusura dell'azienda (15,85%).

Se conciliare lavoro e famiglia in Italia è difficile, non lo è altrettanto in altri Paesi. Per esempio la Danimarca costituisce un modello esemplare per quanto concerne le politiche sociali: basti pensare che lì gli asili sono gratuiti, come pure l'università e si ha diritto a un anno di maternità o paternità retribuiti al 100%. E non è un caso se l'esecutivo è quasi tutto al femminile: il nuovo premier è donna, come donne sono ben nove ministri.

Altri studi, questa volta effettuati dalla Banca d'Italia rivelano che se nel nostro Paese l'occupazione femminile raggiungesse il 60% (come da impegni presi a Lisbona) il PIL italiano crescerebbe del 7%. Per ogni 100 donne che lavorano si creerebbero ad esempio 15 posti di lavoro aggiuntivi nel settore dei servizi. Gli obiettivi di Lisbona  sono raggiunti in gran parte del Nord ma al Sud la disoccupazione femminile raggiunge il 16% (mentre la media italiana non supera il 10%) e il 64% delle donne non cerca lavoro. I dati Istat rilevano infatti una vasta area di donne "scoraggiate", ossia coloro che sarebbero disponibili a lavorare ma hanno ormai smesso di cercare lavoro: sulle 893mila donne italiane in questa condizione, 575mila sono al Sud e sono 4 volte di più che in Europa.

Eppure è ormai un dato di fatto che la maggiore partecipazione delle donne alla vita produttiva, attraverso l'impresa, sia diventata una risorsa fondamentale per contribuire allo sviluppo economico di un Paese. A maggior ragione se le donne riescono ad esprimere appieno la propria creatività e professionalità ai vertici di un'impresa. D'altra parte l'azienda è un lavoro di squadra che deve premiare il merito e la capacità di creare valore dell'individuo, e quindi anche delle donne.

A tal proposito, le ricerche che illustrano i benefici per le imprese che hanno donne manager al top si moltiplicano, anche se il numero delle esponenti del gentil sesso in questi ruoli continua a essere basso. Secondo il Rapporto nazionale sull'imprenditoria femminile - realizzato da Unioncamere con la collaborazione del Ministero dello Sviluppo economico e del Dipartimento perla Pari Opportunità - nel 2011 in Italia le imprese gestite da donne sono state circa un milione e quattrocento (7 mila aziende in più rispetto al 2010, pari allo 0,5%), sono cresciute più di quelle maschili e hanno resistito meglio alla crisi.  

Anche secondo l'indagine "Le donne al vertice delle imprese" condotta dal Cerved Group e Manager Italia, la maggiore presenza di quote rosa è sinonimo di crescita per le imprese. Lo studio, eseguito su un campione di 28 mila aziende italiane, ha evidenziato che una maggiore presenza femminile nei processi decisionali avrebbe:
   
favorito le perfomance aziendali,
   
ridotto il rischio di default,
   
promosso un maggiore impiego di risorse umane "rosa" nell' intera nazione dando stimolo all' economia.

La tendenza osservata ad ogni modo è che l'esigenza di inserire risorse femminili nei luoghi dirigenziali sta creando un po' di scompiglio nel mondo delle imprese ma  si tratta di "movimenti" che hanno avuto quasi sempre ripercussioni positive in termini di crescita aziendale. Lo studio Cerved dimostra che i Consigli di Amministrazione composti per un quinto da donne hanno una redditività migliore e il 37% di capitali in più su cui investire per crescere. Insomma, avere più donne in seno ai processi decisionali migliora il governo delle imprese e le imprese italiane hanno un grande bisogno di migliorare la loro governance.

Eppure questo assunto deve essere ancora oggi giustificato e in Italia rimane un obiettivo piuttosto che una realtà. Nonostante l'ampio dibattito di questi anni, la presenza femminile al vertice delle imprese italiane rimane tra le più basse in Europa. Nel nostro Paese sono le donne a laurearsi prima e meglio dei colleghi uomini, ma nel mondo del lavoro il gap che li separa è di 20 punti a favore di questi ultimi.

Cosa fare per ridurre il gap?
Il governo ha dimostrato di volerci provare con l'approvazione della legge 120/2011 sulle cosiddette "quote rosa", che obbligheranno entro il 12 agosto 2012 i Consigli di amministrazione delle società quotate a rinnovarsi riservando alle donne una quota pari ad almeno un quinto degli organi sociali che a partire dal secondo e terzo rinnovo dei Cda dovrà diventare pari ad almeno un terzo. In questo modo, nei prossimi dieci anni (periodo nel quale la legge sarà in vigore) si spera di poter scardinare composizioni consolidate da tempo in modo da favorire un'innovazione culturale ed economica nello stesso tempo. Una conquista per il mondo femminile che ha il sapore della sconfitta morale per il nostro Paese, ancora una volta incapace di promuovere un processo naturale volto a garantire una parità di rappresentanza dei generi. Siamo lontani anni luce da notizie come quella giunta dall'America riguardante la nomina da parte di 11 uomini, di una giovane donna, Marissa Mayer, bella e al sesto mese di gravidanza, come amministratore delegato di Yahoo.

In una democrazia come la nostra che nella sua Carta Costituente si proclama paritaria, è stata necessaria la "forzatura" di una legge giunta in porto dopo più di due anni di lotte per provare a  rimuovere, definitivamente, tutti gli ostacoli che sinora hanno limitato l'accesso delle donne a ruoli di comando, favorendo in questo modo un processo di rinnovamento culturale a supporto di una maggiore meritocrazia e di reali opportunità di crescita. In definitiva, la stima è che entro il 2015 dovranno sedere nei Cda delle società quotate private circa 700 donne (attualmente sono poco più di 300 accanto a oltre 4mila uomini) mentre nelle società pubbliche - mobilitate dalla legge 120/2011 al pari delle società private - nei prossimi dieci anni dovranno confluire circa diecimila donne, tra consiglieri e sindaci.

Una legge che non deve essere sottovalutata ma che non basta. Le donne hanno comunque bisogno di servizi e di un nuovo sistema di welfare per poter accedere ai ruoli di comando con più tranquillità e, di conseguenza, per poter innovare e competere. Servono modelli di supporto organizzati soprattutto a livello sociale: servizi bus per gli scolari, asili nidi, scuole a tempo pieno, attività per gli anziani e i disabili ecc.. I sistemi a tutela dell'occupazione femminile non possono essere attivati solo dalla stessa lavoratrice o dall'impresa, ma è necessaria una coordinata politica di welfare che coinvolga maggiormente le istituzioni pubbliche per giungere finalmente ad un cambiamento radicale e strutturale.

Il rilancio della crescita economica italiana passa dalla competitività che riuscirà a raggiungere l'universo delle piccole e medie realtà imprenditoriali. In questo senso il talento femminile ha dimostrato di rappresentare un fattore di efficienza economica sul quale dover puntare, a condizione che venga abolito ogni ostacolo culturale e sociale. D'altra parte l'impresa non ha sesso, è solo importante che funzioni e che produca.

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