Mancino, Dell'Utri, Mannino e gli ufficiali del Ros sotto accusa.

È passata meno di una settimana dalla ricorrenza del ventennale della strage di via D'Amelio, l'eco delle polemiche tra magistratura e politica ancora non si è placato e da oggi si aggiunge una nuova pagina alla complessa vicenda della trattativa tra Stato e Cosa Nostra. Si apre una fase ulteriore che porterà alla prova dell'aula gli scenari utili alla ricostruzione di quanto avvenne due decenni fa: solo così si può sperare di capire come il corso della storia del nostro Paese sia stato pesantemente influenzato e modificato fino ai giorni nostri, sulla pelle di fedeli servitori dello Stato. La Procura della Repubblica di Palermo ha avviato questa nuova fase, rompendo gli indugi e depositando la richiesta di rinvio a giudizio per le dodici persone che erano state raggiunte poco tempo fa dall'avviso di chiusura delle indagini preliminari (art. 415 bis c.p.p.).

Le dodici persone per le quali è stato chiesto il processo sono Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Massimo Ciancimino, Antonino Cinà, Giuseppe De Donno, Marcello Dell'Utri, Nicola Mancino, Calogero Mannino, Mario Mori, Bernardo Provenzano, Salvatore Riina, Antonio Subranni: un rigoroso ordine alfabetico per una lettura inquietante. Mai come questa volta leggere i nomi di boss di prima grandezza di Cosa Nostra insieme a quelli di ex ministri e parlamentari della Repubblica, esponenti dell'Arma dei carabinieri ci porta ad avere le vertigini: è come se affacciandosi sui crateri di Capaci e via D'Amelio ora fosse possibile iniziare a distinguere tra la polvere e le fiamme cosa realmente si celi dietro quelle stragi.

È un inizio, ovviamente, e non ci è dato ancora di esprimere giudizi definitivi, perché non dobbiamo mai dimenticare che la presunzione di innocenza fino a condanna definitiva è una conquista preziosa da custodire gelosamente. A maggior ragione in casi come questi, dove le stesse fondamenta delle istituzioni e della politica scricchiolano pericolosamente e il rischio del qualunquismo e della ribellione fine a sé stessa non aiutano alla comprensione della verità.

Attacco allo Stato

Il cuore dell'ipotesi accusatoria presentata dai magistrati palermitani è l'art. 338 del codice penale (Violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario) che recita così:. «Chiunque usa violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario o ad una rappresentanza di esso, o ad una qualsiasi pubblica Autorità costituita in collegio, per impedirne in tutto o in parte, anche temporaneamente o per turbarne comunque l'attività, è punito con la reclusione da uno a sette anni».. La trattativa quindi andrebbe intesa come quel complesso di attività criminose volte a turbare il naturale andamento delle istituzioni e dei suoi rappresentanti, in particolare del Governo, fino al punto da impedirne una libera determinazione e a deviarne il corretto funzionamento. L'oggetto della minaccia ai corpi politici dello Stato sarebbe consistito in questo: «l'organizzazione e l'esecuzione di stragi, omicidi e altri gravi delitti (alcuni dei quali commessi e realizzati) ai danni di esponenti politici e delle Istituzioni». I due attori in campo - lo Stato e Cosa Nostra - sarebbero stati rappresentanti in tempi diversi da Calogero Mannino, Marcello Dell'Utri e gli ufficiali del Ros dei carabinieri da un lato e da Totò Riina, Bernardo Provenzano e gli altri boss corleonesi dall'altro.

Soggetti non sempre interagenti tra loro e attivi in frangenti temporali differenti, tanto da far presumere che vi siano state più trattative oppure che siano fasi diverse di una sola trattativa. Il primo politico protagonista di queste relazioni pericolose e illecite sarebbe Calogero Mannino, spinto innanzitutto dalla paura di essere ucciso come il compagno di partito Salvo Lima. Secondo l'ipotesi accusatoria avrebbe dato via ai contatti con i boss fin dall'inizio del 1992 e, in seguito si sarebbe speso anche per una riduzione del carico afflittivo del carcere duro per gli esponenti mafiosi, introdotto con l'art.41 bis dell'ordinamento penitenziario. La palla sarebbe poi passata all'Arma dei carabinieri, chiamati a fare il lavoro più sporco, per usare un eufemismo.

Gli ufficiali Mori e De Donno, con l'avvallo del capo del Ros Subranni, ma con un vero e proprio incarico da parte di uomini politici e di governo - ancora da individuare - si  sarebbero attivati per mettersi in comunicazione con i boss di Cosa Nostra, agganciando in primis l'ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, che si sarebbe prestato a fare da "ambasciatore" alle istanze dello Stato. Un ambasciatore impegnato sui due fronti: Ciancimino non avrebbe solo relazionato ai boss sulla volontà dello Stato di trovare un accordo, ma avrebbe riportato ai carabinieri le richieste dei capi della mafia, che in fase successiva si sarebbe incardinato nel cosiddetto "papello" redatto da Riina e da altri sottoscritto. L'esito di questi contatti sarebbe stato la nascita di una trattativa.

Lo Stato si sarebbe impegnato a rinunciare ad esercitare i propri poteri repressivi, mentre Cosa Nostra avrebbe garantito la fine della strategia stragista, grazie anche alla nuova filosofia del cosiddetto "inabissamento" voluta da Provenzano, pronto ad assicurarsi innanzitutto il beneficio della sua personale immunità, per portare nuovamente gli affari di Cosa Nostra lontano dai riflettori sotto cui erano finiti per la volontà di Riina di imporre il proprio volere criminale alle istituzioni. Un ruolo in questa fase sarebbe stato giocato anche dal magistrato Francesco Di Maggio, allora al  vertice del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria e dall'ex capo della Polizia Vincenzo Parisi. Oggi non sono nell'elenco delle persone per cui si chiede il rinvio a giudizio solo perché  sono morti nel frattempo.

Nel 1993, una nuova trattativa o un'altra fase della medesima, vedrebbe come protagonisti Dell'Utri - che prende il posto di Lima e Mannino - e Bagarella e Brusca, in seguito agli arresti di Riina e Ciancimino. L'ex manager di Publitalia e ora senatore della Repubblica si sarebbe mosso perché le minacce dei boss arrivassero a Berlusconi e le richieste più scabrose finissero soddisfatte. I due boss «prospettarono al capo del governo in carica Silvio Berlusconi, per il tramite di Vittorio Mangano e Dell'Utri, una serie di richieste finalizzate ad ottenere benefici di varia natura». Resta da dire di Nicola Mancino e di Massimo Ciancimino. Per quest'ultimo si chiede il processo in ragione del suo ruolo di segretario particolare del padre, chiamato a tenere i contatti tra i carabinieri e i boss. Per Massimo Ciancimino l'accusa è di concorso esterno in associazione mafiosa, ma dovrà rispondere anche di calunnia nei confronti di Gianni De Gennaro, per aver tentato di coinvolgerlo nella trattativa, sulla base di alcune prove da lui stesso falsificate ad arte.

Per Nicola Mancino, a quei tempi titolare del Viminale e poi diventato presidente del Senato e vicepresidente del CSM, l'accusa non è di attentato a corpo politico dello Stato, bensì di falsa testimonianza: aver negato di essere a parte dei contatti avviati da Ros e aver sostenuto tesi non suffragate dai riscontri portati da altri, come il collega Martelli, infatti, pongono le sue dichiarazioni alla magistratura palermitana sotto pesante censura che necessita di un vaglio processuale. L'ipotesi di falsa testimonianza è emersa anche a carico dell'ex ministro della Giustizia Giovanni Conso e dal capo del Dap dell'epoca Adalberto Capriotti: il procedimento per le false dichiarazioni rese ai pm è però sospeso in attesa che si definisca questo, considerato il processo principale.

La stanza della verità

Questi sono gli elementi contenuti nella richiesta di rinvio a giudizio per i dodici, presentata oggi dal pool di magistrati coordinati da Antonio Ingroia. Il procuratore capo Messineo si è limitato a vistare l'atto, dopo essersi astenuto dal controfirmare l'avviso di chiusura delle indagini. Una presa di distanza ulteriore o un eccesso di "low profile"? Difficile davvero rispondere alla domanda, viste anche le profonde spaccature che interessano, ancora una volta, il palazzo di giustizia di Palermo. Se questo delineato nella richiesta di rinvio a giudizio fosse lo scenario di cui Paolo Borsellino venne a conoscenza prima di essere ucciso, in parte si spiegherebbe lo sconforto che prese il magistrato. Siamo però certi che altri tasselli, altri nomi manchino per comporre meglio il quadro di fronte al quale l'intransigente giudice andò componendo con indagini, ragionamenti ed esperienza in quei cinquantasette giorni che lo accompagnarono verso via D'Amelio.

Ci sono ancora angoli di verità da illuminare, c'è ancora molto lavoro da fare, come ha ricordato Antonio Ingroia utilizzando la metafora della stanza della verità, dove finalmente si sarebbe potuti entrare, salvo avere la spiacevole sorpresa di trovare il buio, anziché la luce. Ci vuole pazienza ancora, ci vuole che il processo si celebri, serve anche che la politica non lo strumentalizzi e forse, forse, allora luce piena su quanto avvenne vent'anni fa potrebbe finalmente farsi e dare così un parziale ristoro alle famiglie delle vittime. Fino a quel momento stampa e opinione pubblica non dovranno stancarsi di fare la propria parte. 

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