Marco Sarti

Con i voti di Pdl e Lega, il Senato vara la norma sull'elezione diretta del capo dello Stato. Un provvedimento che con ogni probabilità non entrerà mai in vigore, assieme al resto delle riforme costituzionali. Non ci sono i tempi tecnici, né le condizioni politiche. E allora, invece di discutere di cose inutili, non era meglio dedicare più attenzione alla spending review?

Poco più di mezz'ora. Tanto è bastato al Senato per approvare l'introduzione nella nostra Costituzione del semipresidenzialismo. Il progetto del Popolo della libertà che permetterà agli italiani di eleggere direttamente il prossimo presidente della Repubblica. Almeno in linea teorica. Nonostante il voto di Palazzo Madama, la riforma resta un'eventualità. Neppure troppo concreta. Perché in Parlamento mancano le condizioni tecniche e politiche per procedere alla definitiva approvazione dell'intero disegno di legge. E con ogni probabilità l'istituzione del Senato Federale, la riduzione di deputati e senatori, la fine del bicameralismo perfetto e il semipresidenzialismo non vedranno mai la luce.

Il primo ostacolo alle riforme costituzionali è legato ai tempi ristretti. A dettare le regole è l'articolo 138 della Carta. «Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi». Considerato che l'introduzione del semipresidenzialismo ridisegna ben 12 articoli del testo, l'iter è segnato. Il pacchetto di riforme - licenziato dal Senato entro questa settimana - arriverà a Montecitorio entro settembre. Anche ipotizzando una rapida quanto improbabile approvazione, si arriva a fine mese. Il nuovo passaggio a Palazzo Madama sarà fissato a cavallo tra ottobre e novembre. Poi a fine dicembre il ddl tornerà all'esame dei deputati. Passate le feste natalizie e superato il vaglio di commissioni e Aula si arriva a gennaio inoltrato. Peccato che per quell'epoca il presidente della Repubblica dovrebbe aver già avviato il processo di scioglimento delle Camere. In vista delle elezioni a inizio primavera.

Per quanto difficile, quello appena delineato è un percorso persino troppo ottimistico. Infatti sarà sufficiente una sola modifica durante il primo passaggio alla Camera e il testo dovrà ripartire dal Senato. Tutto daccapo.

Ostacoli tecnici e questioni politiche. A Palazzo Madama l'intesa tra Pd, Pdl e Terzo polo è saltata da tempo. Il pacchetto di riforme costituzionali studiato dai partiti che sostengono l'esecutivo Monti è stato modificato dal nuovo asse tra gli uomini di Angelino Alfano e la Lega Nord. Un revival della vecchia maggioranza di governo costruito attorno a uno scambio. Il Pdl ha accettato di approvare il Senato federale, in cambio il Carroccio ha votato l'introduzione del semipresidenzialismo. E già qui nasce un dubbio. La riforme costituzionali, proprio per il loro valore, dovrebbero essere approvate dal più ampio numero di partiti possibile. Sicuramente non da una striminzita maggioranza politica. Secondo dubbio: Pdl e Lega possono ancora contare su una buona maggioranza a Palazzo Madama. Ma lo stesso non si può dire di Montecitorio, dove il centrodestra potrebbe non avere i numeri per portare a casa il risultato.

L'ultima riflessione introduce un terzo ostacolo. Il già citato articolo 138 della Carta prevede che le leggi di revisione della Costituzione siano «sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi». Il referendum può essere evitato solo in un caso: se nell'ultima votazione ciascuna delle due Camere dà il via alla riforma con il voto positivo di due terzi dei componenti. Impossibile, date le condizioni politiche attuali. Ecco perché il pacchetto di riforme, una volta sottoposto a referendum, non entrerebbe comunque in vigore prima del 2018.

Non stupiscono allora le difficoltà incontrate oggi da Pdl e Lega per approvare il disegno di legge. Un voto tra le polemiche. Con alcuni senatori berlusconiani - Giuseppe Saro e Beppe Pisanu («Nella migliore delle ipotesi quello che avremo sarà una bandiera da sventolare in sede elettorale, posto che ci sia il vento») - che hanno preferito astenersi. Con l'assenza degli esponenti di Pd e Idv usciti dall'Aula per protesta e il voto contrario di Udc e Api.

Se Angelino Alfano parla di «un fatto storico, una grande chance per il Paese», il Partito democratico si indigna. «Un diversivo senza costrutto - denuncia Pierluigi Bersani - Spero solo che in questo gesto irresponsabile, inutile e del tutto inconcludente, non si facciano deroghe a quello che dobbiamo fare subito, la riforma elettorale». Ognuno difende la sua scelta. Resta un dubbio. Negli stessi giorni in cui si stanno approvando le riforme costituzionali, è all'attenzione del Senato il decreto sulla spending review. Data la crisi economica e le difficoltà del Paese - e considerate le complicate prospettive parlamentari del pacchetto Pdl-Lega - non sarebbe stato più onesto dedicare maggior tempo (peraltro, retribuito dai cittadini-contribuenti) a quel provvedimento?

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