Scritto da  Emanuele Fantini

Un rubinetto lasciato aperto o una conduttura che perde: sono queste le immagini che associamo quasi automaticamente allo spreco di acqua. In realtà, ciascuno di noi ogni giorno utilizza acqua per bere, cucinare e lavare, ma ne consuma, in modo indiretto, quantità ben maggiori attraverso il cibo che mangia. Sprecare cibo, o produrlo in modo non efficiente, equivale quindi ad un vero e proprio spreco nello spreco.

A ricordarcelo è "Il libro blu dello spreco in Italia: l'acqua"(Edizioni Ambiente),  curato da Andrea Segré e Luca Falascioni da pochi giorni in libreria.  Gli autori sono gli animatori del progetto Last minute market,  spin off dell'Università di Bologna che da anni si interessa a come ridurre lo spreco di cibo in Italia e che promuove la campagna Un anno contro lo spreco nel 2011 dedicata alle conseguenze dello spreco di cibo in termini di spreco dell'acqua necessaria alla sua produzione.

Come sottolinea Andrea Segré nell'introduzione, "solo nel 2010 in Italia sono rimasti in campo poco più di 15 milioni di quintali di prodotti agricoli per la cui produzione sono stati utilizzati quasi 1,2 miliardi di metri cubi di acqua (che potremmo stimare pari al Lago di Iseo)".

L'agricoltura è infatti a livello mondiale il principale consumatore di acqua e responsabile della scarsità idrica che interessa porzioni sempre più ampie del pianeta, sottolinea Luca Falascioni nel primo capitolo. Numerosi paesi si troveranno di fronte alla sfida di dover produrre una quantità maggiore di cibo, a fronte di minori risorse idriche a disposizione, sia per il loro depauperamento, che per l'aumento della popolazione e dei consumi legati a stili di vita più idroesigenti.

I cambiamenti climatici rendono inoltre più aleatorie i dati e le previsioni sulla disponibilità idrica. La riduzione delle piogge e la loro tropicalizzazione, con periodi sempre più lunghi di siccità, espongono al rischio di desertificazione porzioni sempre più vaste del territorio italiano: il 74,5% in Sicilia, il 63,5% in Puglia, il 46,4% in Sardegna.

Le soluzioni proposte dal libro passano quindi, da un lato, per una maggior efficienza nell'utilizzo di acqua per l'irrigazione in Italia, e, dall'altro, anche in una maggior attenzione alla dieta e ai consumi. L'efficienza di cui parla Alessandro Politano nel quarto capitolo, non è tuttavia quella meramente economica dell'economia neoclassica, ma quella ecologica che tiene conto della dimensione ambientale et etica della questione, per cui ad esempio utilizzare acqua per produrre alimenti che non vengono poi raccolti in quanto il loro prezzo sul mercato non lo rende redditizio, rappresenta uno spreco nello spreco.

I nutrizionisti Guglielmo Bonaccorsi e Stefania Vezzosi sottolineano inoltre come in un anno la dieta mediterranea utilizza poco più di 1.700 metri cubi di "acqua virtuale" pro capite mentre quella di tipo anglosassone ben 2.600 metri cubi pro capite. Lavorare sull'equilibrio della dieta e sul cambiamento delle abitudini alimentari può dunque incidere significativamente sui consumi d'acqua e sulla pressione sulle risorse idriche del pianeta, molto più dei virtuosismi del risparmio domestico, come chiudere il rubinetto della doccia mentre ci si insapona.

Proprio la nozione di "acqua virtuale" presentata da Marta Antonelli e Francesca Greco nel quinto capitolo, permette infatti di inserire i consumi italiani nel contesto più ampio delle risorse idriche e degli equilibri ecologici dell'intero pianeta. L'Italia è infatti un paese importatore netto di acqua virtuale: mangiamo e utilizziamo l'acqua di altri paesi, quella utilizzata per la produzione degli alimenti e dei beni che importiamo. Da qui la necessità di consumi e stili di vita più consapevoli, interrogandosi innanzitutto sul tipo di acqua virtuale utilizzata per produrre il cibo che consumiamo. In che proporzione questi utilizzano acqua blu (quella delle falde del sottosuolo, dei fiumi e dei laghi), acqua verde (quella piovana, presente nell'umidità del suolo) o acqua grigia (quella necessaria per diluire gli agenti inquinanti del pro- cesso di produzione)? In secondo luogo occorre approfondire il contesto geografico da cui si preleva l'acqua virtuale che serve a produrre il cibo che consumiamo: un pomodoro coltivato con acqua irrigua nella Valle del Giordano non ha lo stesso impatto economico, sociale ed etico di quello prodotto nelle campagne prossime alle nostre città.

A quando un sistema di etichette per gli alimenti che consumiamo che indichi non solo la quantità di acqua virtuale utilizzata per la loro produzione, ma anche la sua qualità e la sua provenienza?

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