Lidia Baratta

Anche la ?ndrangheta si sindacalizza. Tre dei sei uomini arrestati ieri mattina dai carabinieri di Reggio Calabria non sono semplici dipendenti delle imprese che lavorano sulla autostrada Salerno-Reggio Calabria, ma sindacalisti molto attivi sul territorio. Che, invece di rappresentare i diritti degli operai, avrebbero fatto gli interessi delle cosche di 'ndrangheta.

Anche la ?ndrangheta si sindacalizza. L'ultimo ramo dell'indagine "Alba di Scilla" della Dda di Reggio Calabria, che a fine maggio aveva portato all'arresto di 12 presunti affiliati alla cosca dei Nasone-Gaietti, rivela una nuova strategia delle ?ndrine calabresi nell'estorsione di denaro alle ditte che lavorano all'ammodernamento dell'autostrada Salerno-Reggio Calabria. Tre dei sei uomini finiti in manette stamattina non sono semplici dipendenti delle imprese collusi con l'ndrangheta, ma sindacalisti o rappresentanti dei lavoratori molto attivi sul territorio. Che, invece di rappresentare i diritti degli operai, avrebbero fatto gli interessi delle cosche. Come? Sfruttando il proprio ruolo per fare pressioni sui titolari delle ditte sia per l'assunzione di amici e parenti sia per il pagamento di quello che sulla A3 è ormai un vero e proprio «costo sicurezza». Ovvero, il pizzo. Che, in base alle regole della zona, deve corrispondere al 3% dell'importo dei lavori di ciascuna impresa.

Francesco Spanò, rappresentante sindacale della Filca-Cisl, Giuseppe Piccolo, responsabile della sicurezza sui cantieri, e Francesco Alampi, non proprio un dirigente sindacale ma una specie di capopopolo, sono ora accusati di estorsione e furto con l'aggravante di aver agito per favorire le cosche mafiose sotto il controllo di Francesco Nasone, già arrestato a maggio nel troncone principale dell'inchiesta. I tre erano tutti dipendenti della ditta "Santa Trada", che ha vinto l'appalto dei lavori nel tratto tra Monacena e punta Pacì e subappaltato il cantiere alla ditta "Ediltecnica srl". Secondo l'indagine firmata dal procuratore aggiunto Michele Prestipino e dai pm Alessandra Cerreti e Rosario Ferracane, i tre «estorcevano denaro alla stessa ditta appaltante». L'accusa è anche quella di aver rubato, nell'aprile scorso, materiale da lavoro per un valore complessivo di 14 mila euro da una cassa porta attrezzi all'interno del furgone della ditta.

In base a quanto emerge dalle carte dell'inchiesta, gli uomini delle cosche avevano studiato con attenzione i turni di lavoro degli operai, agendo nel fine settimana, quando il cantiere era vuoto, per mettere a punto furti e danneggiamenti. Di ritorno dal week end, racconta il capocantiere della Ediltecnica, «ho avuto l'amara sorpresa di scoprire che un furgone - che il venerdì precedente era stato parcheggiato all'ingresso della zona di Chianalea di Scilla sotto un viadotto - era stato forzato; in particolare ho notato insieme agli altri operai che erano stati tranciati i lucchetti che chiudevano una cassa porta-oggetti posta sopra il cassone del furgone. Ho avuto modo subito di notare che l'attrezzatura che di solito custodivamo all'interno della predetta cassa porta-oggetti (4 sparachiodi e una saldatrice della plastica [...]) era stata portata via; subito dopo ho notato con gli altri operai che le due ruote anteriori e le due delle quattro gomme posteriori esterne erano state tagliate verosimilmente con l'uso di un coltello».

Secondo i pm, gli operai avrebbero anche minacciato il capocantiere della Ediltecnica, facendogli sapere che l'unico modo con il quale la ditta avrebbe potuto riavere gli attrezzi era quello di non sporgere denuncia per il furto. In caso contrario, le sparachiodi e la saldatrice sarebbero andate distrutte. E davanti alla possibilità che l'ingegnere del cantiere denunciasse ai carabinieri l'accaduto (cosa che poi ha fatto), uno degli uomini della ?ndrina risponde: «Oh? fai una cosa di queste e non troverai più nulla!...».

Allo stesso capocantiere, che poi ha deciso di collaborare con gli inquirenti, Alampi, Piccolo e Spanò avrebbero chiesto se la ditta per cui lavora avesse «regolarizzato» o meno la propria posizione a Scilla. Ovvero, se avesse pagato il 3% alla cosca della zona, quella dei Nasone-Gaietti. La Ediltecnica avrebbe dovuto pagare 600 euro al mese alla cosca, da corrispondere in aggiunta al canone «per la locazione a Scilla di alcuni appartamenti in uso agli operai». Il tutto era necessario per poter continuare a eseguire i lavori di realizzazione delle gallerie nel tratto Monacena-Pacì dell'autostrada. «Mi giunsero delle strane richieste tramite un operaio neo-assunto», racconta il l'ingegnere capo della ditta, che a nome di suo padre «mi fece sapere che avrei dovuto versare 600 euro di tangente attraverso il pagamento dell'affitto presso la struttura dove alloggiamo». In parole povere, «se l'affitto reale fosse stato di euro 3.000, avrei dovuto versarne 3.600».

Non solo. I "sindacalisti" della cosca avrebbero fatto pressioni anche per nuove assunzioni. Tra le intercettazioni riportate nella richiesta per l'applicazione di misure cautelari della procura di Reggio Calabria, ce n'è una in cui Alampi chiede al capocantiere della Ediltecnica di assumere come operaio «la persona raffigurata nella fotocopia di una carta d'identità» trovata sul cruscotto del furgone. «Il mio dipendente», racconta l'ingegnere della ditta, «mi ha detto di averla trovata all'interno di un nostro furgone, una fotocopia di una carta d'identità con sopra manoscritta una richiesta di assunzione relativa al soggetto di cui a quel documento, in quanto bisognoso». Ma non è finita qui. Dopo circa 15 giorni, lo stesso ingegnere riceve «una chiamata dal sindacalista Carmine Napoli, il quale mi chiedeva, guarda caso, se avessi deciso di assumere quel soggetto di cui alla predetta carta d'identità. Preciso di non aver mai menzionato quel soggetto al Napoli e, non mi spiego come possa averlo saputo».

Le intimidazioni, le minacce e le estorsioni compiute dagli affiliati alla 'ndrina ai danni delle ditte del territorio fanno emergere, scrivono gli inquirenti, come la cosca Nasone-Gaietti costituisca «una delle proiezioni territoriali della ?ndrangheta nella fascia tirrenica della provincia di Reggio Calabria, non solo in considerazione delle sentenze passate in giudicato», ma soprattutto perché nel corso dell'attività di indagine compiuta è emersa la deizione «oltre che a "sollecitare" attraverso reiterate azioni di danneggiamento ed intimidazioni, ad imporre ed a riscuotere, nella rispettiva zona di competenza, una quota dei proventi delle estorsioni connesse ai lavori di ammodernamento dell'autostrada A3 Sa-Rc (il famoso "tre per cento" del capitolato), somma pretesa a titolo di imposizione di "pizzo" anche in Calabria da parte delle cosche che esercitano il proprio dominio nei territori in cui vengono eseguiti i lavori; nonché ad ottenere, con la forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo ed avvalendosi della relativa condizione di assoggettamento e di omertà, il pieno controllo del territorio e la gestione di altre fette del tessuto economico».

Nel corso dell'intera attività di indagine, si legge nelle carte, è stato fotografato «un capillare controllo e potere sul territorio, il terrore e l'omertà della gente e delle imprese, la finalità e anzi l'attuazione di ingiusti profitti da estorsioni e la longa manus sugli appalti e su qualsiasi fonte di ricchezza». L'organizzazione mafiosa si riteneva, insomma, «padrone pieno ed esclusivo del territorio, con tutti i relativi poteri».

Nonostante questo, la seconda parte dell'inchiesta condotta dalla Dda di Reggio Calabria è scattata grazie alla collaborazione degli imprenditori. Che,  dopo l'operazione di fine maggio, hanno iniziato a parlare con i magistrati, confermando il pagamento obbligato del pizzo agli uomini della 'ndrangheta. «Ci aspettiamo che tutti gli imprenditori facciano la loro parte», aveva detto Michele Prestipino dopo i dodici arresti del 30 maggio scorso. E qualcosa, dopo le sue parole, sembra essersi mossa. Perché, come più volte ha ribadito il magistrato, solo «grazie alla collaborazione dei titolari delle aziende è possibile infliggere colpi durissimi al fenomeno delle tangenti, che arricchisce i clan e mette in ginocchio l'economia».

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