Arturo Varvelli
L'esito straordinario delle elezioni in Libia non deve indurre a cantar vittoria troppo presto. Le votazioni e il clima generale sono stati sostanzialmente positivi, soprattutto nelle grandi città, ma la composizione parlamentare obbligherà a grandi intese e a tener presente gli interessi locali e regionali. A sud la situazione rimane instabile e in Cirenaica le richieste autonomiste rischiano di esasperare la situazione. E, sullo sfondo, ci sono sempre Europa e Stati Uniti.
La Libia non è la Somalia e l'ha dimostrato in queste elezioni, per certi versi dall'esito straordinario, se si considera lo scarso grado di familiarità dei libici con la democrazia. Pensare ad essa come al regno dell'anarchia alle porte di casa risulta molto difficile: troppi gli interessi (economici e di stabilità) delle grande potenze, dell'Europa e degli Stati Uniti, troppa la ricchezza potenziale del paese per non riuscire a far star bene una popolazione di circa sei milioni di abitanti. Le elezioni sono andate bene, soprattutto perché la maggior parte dei libici ha creduto in esse, di fatto "legittimandole"; ciò nonostante la scarsa organizzazione, il tentativo di boicottaggio degli autonomisti/indipendentisti cirenaici, l'opposizione delle frange più violente dei salafiti e il disinteresse delle popolazione Tebu e Tuareg in aperto conflitto con l'autorità centrale e la popolazione araba.
Tuttavia è troppo presto per cantare vittoria e considerare chiusi i giochi con le dichiarazioni di vittoria dei tranquillizzanti "liberali" libici dell'ex primo ministro del governo provvisorio post-Gheddafi Mahmud Jibril. Le votazioni e il clima generale sono stati sostanzialmente positivi, soprattutto nelle grandi città, ma la composizione parlamentare obbligherà a grandi intese e a tener presente gli interessi locali e regionali. 120 parlamentari indipendenti, eletti con il sistema maggioritario secco "first pass the post", rappresenteranno e risponderanno direttamente alla comunità locale che li ha eletti, premiando il radicamento territoriale del singolo candidato, non l'orientamento politico, e forse bloccando con una serie di veti incrociati la composizione del governo e i provvedimenti futuri. Il rischio in tal senso è alto: vedremo quanto ci vorrà alla nomina del nuovo governo.
Difficilmente, nonostante il partito di Jibril, l'Alleanza delle Forze Nazionali, una coalizione che racchiude 58 partiti politici, sembri aver ottenuto i maggiori consensi, riuscirà a fare da solo. E infatti, ancora senza conoscere i risultati definitivi, Jibril stesso ha lanciato la richiesta di una "coalizione ampia" che racchiuda il maggior numero di forze politiche. Gli occidentali, e gli Stati Uniti in particolare, sembrano essere molto soddisfatti dei primi esiti. Gli Stati Uniti sembrano aver "investito" molto sull'Alleanza di Jibril come contrappeso alla predominanza dei partiti islamici, che probabilmente se fossero stati alleati, avrebbero ottenuto la maggioranza. L'amministrazione Obama ha l'unica preoccupazione di dimostrare ai repubblicani detrattori del "leading from behind" che le cose in Libia e in Medio Oriente, così come condotte, possono funzionare. Quella libica, a differenza di Afghanistan o Iraq, rimane l'unica guerra voluta da Obama e il caos sarebbe politicamente rilevante nella riconferma alla Casa Bianca.
La nuova assemblea nasce con una grande sorpresa. Il Consiglio nazionale transitorio (Cnt) venerdì scorso, un giorno prima delle elezioni, ha stabilito che la commissione che dovrà preparare la costituzione non sarà nominata dall'assemblea ma eletta direttamente in nuove elezioni. I libici ci hanno preso gusto? In realtà ciò sembra rispondere alle richieste dei cirenaici che si lamentavano dell'assegnazione dei seggi a loro sfavorevole, ma potrebbe costituire anche il tentativo di tornare in corsa per un posto all'interno della commissione costituente da parte di molti membri del Cnt. A quest'ultimi infatti era proibito candidarsi per l'assemblea generale e il Cnt dovrebbe sciogliersi con la nomina di un nuovo governo.
Al di là dell'ottimismo suscitato da queste elezioni, le sfide per la nuova Libia rimangono molto complesse. La Libia non è ancora pacificata: scontri si verificano infatti in diverse parti del paese, in particolare a nel sud (città di Sebha e Kufra). Restano numerose le milizie armate che si muovono sul territorio libico. Si tratta da un lato di gruppi facenti capo a ex leader della guerra contro Gheddafi che cercano di ritagliarsi un ruolo di potere approfittando delle difficoltà del momento, e dall'altro di semplici ex combattenti che stanno contrattando la consegna delle proprie armi in cambio di un posto nell'esercito regolare o nella burocrazia statale. Infine, non vanno dimenticati gli ancora presenti, seppur ridotti, focolai di resistenza dei sostenitori dell'ex rais (in particolare a Sirte e Bani Walid, ma talvolta anche a Tripoli). Da gennaio il Cnt ha avviato un programma di integrazione delle milizie all'interno all'interno di un costituente esercito nazionale, ma per ora appare più una unione di milizie fedeli alle forze cooptate all'interno del governo provvisorio. Il Cnt aveva ampiamente fallito, il nuovo governo, legittimato dal voto popolare dovrà risolvere la questione.
A sud la situazione è particolarmente delicata. Il Fezzan e buona parte dei territori meridionali sono ancora una grande incognita, di cui conosciamo poco, anche a causa dell'assenza di resoconti dei media. Si sono registrati molteplici episodi violenti e decine di morti. Vedere un sud del paese completamente pacificato nei prossimi anni sarà molto difficile. A ciò si lega la questione del controllo delle frontiere (un problema già durante il regime di Gheddafi, ancor di più oggi che non esiste un esercito efficiente) e del risveglio dei movimenti Tuareg, che Gheddafi aveva foraggiato e incentivato ad abbondonare il nomadismo nel sud est del paese e che ora subiscono le ritorsioni degli arabi, con le conseguenze già note sulla stabilità del Mali e dell'intera area del Sahara.
Resta poi il problema della Cirenaica. Richieste autonomiste provengono periodicamente dai leader politici e tribali dell'est del paese, che spingono per l'autonomia - o addirittura la secessione - della Cirenaica, regione ricca di petrolio e focolaio della rivolta anti regime. A sostegno di tali rivendicazioni ci sarebbero sia vere e proprie ragioni storico-culturali sia interessi economici più attuali legati alle ingenti risorse energetiche presenti nel territorio. Settimana scorsa vi è stato un attacco degli autonomisti al centro organizzativo delle elezioni a Bengasi con la distruzione del materiale per il voto, sabato l'attacco ad un elicottero del CNT che ha comportato un morto.
Nella giornata del voto, autonomisti della Cirenaica avevano inoltre bloccato gli impianti della compagnia tedesca Wintershall rivendicando un maggior peso nella nuova assemblea. Le infrastrutture petrolifere dell'est della Libia hanno ripreso le loro attività due giorni dopo. Pessimo precedente: è la prima volta che proteste comportano il blocco dell'industria petrolifera. La nuova autorità centrale dovrà mettere d'accordo tutti e farlo in fretta, prima che qualcuno pensi che, se non può far parte del gioco, sia meglio distruggerlo. Allora la Somalia tornerebbe d'attualità.
*Ricercatore all'Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi)
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